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La via stretta di un riformismo verde

La via stretta di un riformismo verde

di Francesco Rutelli

Perché in Italia non si è affermato stabilmente un partito politico Verde di dimensioni significative? L’ambientalismo politico è lontano da menti e cuori degli italiani, o potrebbe risorgere in un prossimo futuro?

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I Verdi italiani non sono riusciti a crescere come una forza politica determinante, a differenza di altri paesi europei. Innanzitutto, va ricordato che sin dagli anni ’80 è il tedesco la lingua madre dei Verdi. In Germania, Austria (e, attenzione, in Sud Tirolo e Trentino) si è affermata la più solida, matura, innovativa e duratura esperienza di ecologia politica europea. Sempre attraversata da una doppia anima alla ricerca di un equilibrio: Fondamentalista, oppure Realista; oggi, nell’antinomia tra i fautori della Green Growth (la Crescita verde) e i fautori di un approccio che i critici definiscono Dark Green, per la sua visione antagonista e negativa rispetto all’economia sociale di mercato.

Anche in altri Paesi Liste Verdi hanno raggiunto una doppia cifra (in Belgio, ad esempio), o hanno un consolidato ‘zoccolo’ politico (i Paesi Nordici, con una caratterizzazione spesso più di sinistra). Spinte alternate, con fiammate elettorali e depressioni, si sono registrate in altre nazioni: in particolare in Francia, dove tuttavia si sono affermate correnti culturali significative, non solo a sinistra – i Verdi sono un partner governativo minore della Gauche Plurielle – ma anche nel campo del centro-destra, oppure con un richiamo non-partitico. Interessante, in questo senso, il caso-Hulot: un ambientalista molto popolare e ‘trasversale’, che aveva accettato di concorrere per una candidatura Presidenziale – per cui avrebbe potuto raccogliere significativi consensi -, salvo essere tritato nelle “Primarie” politiche degli Ecologisti, che gli hanno preferito il magistrato di sinistra Eva Joly, la quale ha raccolto un pessimo risultato.

E in Italia? Quali avversari, o avversità, hanno impedito una duratura affermazione dei Verdi?

L’AFFERMAZIONE DEI TEMI AMBIENTALI

Indubbiamente, finché la sensibilità ecologica è stata confinata ai margini delle grandi culture politiche, i Verdi sono stati anticipatori, ed hanno occupato uno spazio vuoto, e di crescente importanza. Non va dimenticata la funzione dei radicali, che sono stati il primo partito ad inserire alcune tematiche verdi ed ecologiche tra i temi di battaglia, già negli anni ’70. Ma il primo, e tuttora il maggiore veicolo di sensibilizzazione popolare ambientale in Italia è stato l’incidente di Chernobyl (1986): ogni persona che si recava a fare la spesa, familiarizzava con le tabelle sul Cesio rilevato nell’insalata. Da quel disastro ecologico è scaturito anche il desiderio di individuare nel movimento Verde una possibile alternativa culturale, sociale (e, in misura minore, economica), rispetto ad una politica sorda ai cambiamenti del mondo contemporaneo. La finestra di opportunità si è concretizzata nel successo alle Europee dell’89 (6,2% dei voti alle due Liste, Verde e Arcobaleno, un risultato mai più raggiunto) e con l’ingresso in Parlamento. Da allora, assume un rilievo politico il patrimonio della cultura politica ambientalista, che già da diversi anni era promossa e diffusa da importanti associazioni (dapprima pionieristiche, poi anche con adesioni di massa: la Legambiente, con una visione complessiva maggiormente politica; il WWF, più legato alla conservazione dell’ambiente naturale; Greenpeace, Italia Nostra, per citare solo le principali). L’ambiente non può più essere trattato dai partiti – tradizionali, o nuovi – come un aspetto meramente marginale rispetto alla politica. Paradossalmente, il monopolio dell’ecologia nel discorso pubblico viene in breve tempo conquistato dai Verdi, ma anche velocemente perduto (pur essendo i concorrenti portatori di sensibilità assai più tenui). I Verdi si trovano infatti stretti nell’alternativa: rappresentare solo un punto di vista parziale, oppure tentare la scalata alla ‘Grande politica’?

DEBOLEZZA CULTURALE, CRISI DI LEADERSHIP

La contraddizione diventa insuperabile: tra il tentativo di leggere le trasformazioni del mondo globale attraverso la lente ecologica, e la creazione di un soggetto politico inevitabilmente minoritario. Per due ragioni principali. La crisi ecologica – che per un certo periodo è esplosa come una manifestazione centrale di crisi per il modello dell’economia di mercato, fresca vincitrice della sfida contro il comunismo realizzato – diviene parte di dinamiche molto più complesse, che esigono una cultura politica in grado di affrontare fenomeni macroeconomici, finanziari, istituzionali altrettanto complessi. E, se è vero che molti di questi temi toccano direttamente la questione ecologica (emissioni e cambiamenti climatici, energia, ecosistemi e materie prime, commercio globale), è vero anche che il mondo della comunicazione esige sempre più sintesi, e la società reagisce male rispetto alla complessità, prediligendo semplificazioni assertive. Dunque, o i Verdi estraggono dal cilindro un Leader dominante, o una specie di Guru (cosa incompatibile con una visione già dall’inizio basata su esperienze locali e, comunque, “soft” e anti-gerarchiche); oppure si rassegnano a posizioni di minoranza, che divengono progressivamente residuali nella scena politica.

LE OCCASIONI PERDUTE DEL RIFORMISMO VERDE

L’ambientalismo è certamente una cultura politica minoritaria nella società italiana. Per stare ai maggiori filoni politico-culturali, le tradizioni storiche della sinistra hanno a lungo rappresentato il lavoro nelle tradizioni produttive del secondo dopoguerra, e un’idea di pianificazione/regolazione cui si è contrapposto da destra, in particolare nell’ultimo ventennio, un messaggio di laissez-faire (un po’ ideologico-parolaio, ma non per questo meno insidioso, come dimostrano i ripetuti condoni edilizi). Difficile, dunque, per i Verdi, inserirsi come fattore aggiuntivo della tradizionale, pur declinante, sinistra; e, tanto più, come fattore decorativo – magari attraverso un’episodica predicazione pro-animalista – nell’ambito della destra. Ancora più difficile, in un paese di illegalità diffusa e mirabolante arte di arrangiarsi, promuovere la legalità ecologica come cifra del cambiamento politico; a maggior ragione, di fronte ad una diffusa, e giustificata, ripulsa contro l’eccesso di regolazione burocratica.

A mio avviso, nella difficoltà di assumere battaglie emblematiche di portata generale, il movimento politico Verde italiano ha perso due opportunità irripetibili. La prima, è stata il mancato matrimonio con i temi del consumerismo, ovvero della difesa attiva del cittadino-consumatore. Questa tematica (che è stata nel frattempo occupata da una sconfinata serie – scoordinata e, in alcuni casi, purtroppo, opaca – di associazioni nazionali, settoriali e locali) avrebbe consentito all’idealismo Verde di incontrare direttamente il pragmatismo economico e organizzativo della vita quotidiana delle persone, delle famiglie e delle imprese. La seconda, è stata l’incapacità di sposare e portare avanti con determinazione alcuni casi-simbolo, ma di valore generale. Per portare un solo esempio: un partito Verde che avesse assunto la contraddizione dell’ILVA di Taranto come sfida nazionale prioritaria, si sarebbe misurato sulla soluzione di un problema altrimenti schiacciante, in una città spaccata in due tra chi può lavorare solo all’interno di quel processo industriale, e chi ne combatte l’inquinamento e l’impatto sulla salute. Ma, per fare questo, sarebbe stato necessario un riformismo Verde davvero efficace: scientificamente fondato, socialmente attento, politicamente incisivo. E capace di formulare strategie di sviluppo produttivo all’altezza di una sfida così grande.

L’esito di queste dinamiche ha lasciato i Verdi italiani per troppi anni in mezzo al guado, e dunque con l’artrosi, se non all’annegamento (mentre si innalzavano le acque della crisi economico-sociale). Presi in mezzo tra un elegante, talvolta elitario conservazionismo e un precoce interesse per la tecnologia. Tra basismo e verticismo. Tra letture locali e visione global. Tra trasversalismo politico e scelta di campo per il centrosinistra.

EPPURE, NON TUTTO SAREBBE PERDUTO

La cultura della sostenibilità, ed un’attenzione diffusa alle tematiche Green si possono riscontrare in molte parti della nostra società. Non solo perché esistono oggi alcuni milioni di persone che lavorano e si formano per mestieri “verdi”. Certo: è impossibile oggi inquadrare queste biografie personali e professionali in un rinnovato Partito Verde (tanto più dopo l’irruzione del “Grillismo”, che pure parecchio si occupa delle tematiche ambientali e, purtroppo, le associa a un confuso rumore di fondo comico-predicatorio-demagogico-populista).

Esiste, tuttavia, un reale spazio politico, ideale e progettuale che potrebbe essere percorso da una rinnovata Coalizione ecologica. Non può essere, infatti, che il nostro tempo continui ad oscillare tra la cinica ideologizzazione del denaro (tutto sembra portare appeso il cartellino del proprio prezzo) e il rozzo alfabeto della lagnanza e del rancore.

La civiltà e il coraggio dei piccoli gruppi che si sono battuti per salvare il proprio territorio dalla devastazione chiamata ‘Terra dei Fuochi’, per fare un esempio, è l’indice di una splendida testimonianza: una minoranza organizzata, espressione di una maggioranza prevalentemente silenziosa, in quella difficile condizione umana e sociale. Come sono state in minoranza le imprese che, per competere, hanno puntato su ciò che chiamiamo Green Economy, ovvero su processi e prodotti sostenibili.  Ma non si tratta di fare il catalogo dei disastri anti-ecologici – e l’elenco degli idealisti che li hanno contrastati -, né delle lungimiranti nicchie produttive Green, con la lista, oggi in grande crescita, di chi ha imparato a vincere anche in spazi grandi e aperti.

L’attenzione all’ambiente è cresciuta più profondamente di quanto molti pensino. Una diffusione attraverso le scuole, con il lavoro educativo di molti insegnanti e attraverso forme di comunicazione mediatica fatta da persone intelligenti e competenti: non tutto è bullismo, non tutto è consumismo esasperato, non tutto è incompetenza ambientale, come invece ci sentiamo spesso ripetere.

La chiave possibile di un rilancio dell’ecologia politica risiede a mio avviso nel dare un colore, il colore Verde, all’esigenza di sconfiggere la Dittatura del PIL. La più longeva, e fallimentare, dittatura dell’Occidente.

Non bisogna essere contro l’economia sociale di mercato, per lanciare un Movimento di liberazione dalla Dittatura del Prodotto Interno Lordo. Io sono un democratico-liberale, perché credo che, finora, non sia stato inventato niente di meglio della democrazia liberale. Credo che la prossima rivoluzione democratica sarà quella capace di legare i valori fondamentali della democrazia e i princìpi basilari dell’umanitarismo con l’amore per la difesa della natura, la passione per l’innovazione, la curiosità per le tecnologie. Vivere bene, in armonia con noi stessi, con gli altri e con la natura; oggi è possibile più di ieri, e molto più a lungo. Senza depredare le prossime generazioni, e senza limitare i nostri rapporti alle comunicazioni tra ologrammi.

Vogliamo chiamarla Crescita Verde in tempi di decrescita infelice? Lavoro attento alla sostenibilità in tempi di disoccupazione e sfiducia? Cultura e realizzazione di sé, e non solo invidia o perversa emulazione sociale? Vivere Verde: non un programma punitivo, ma parte della riscoperta della bellezza positiva dell’esistenza umana. Una Coalizione Verde: la prossima riorganizzazione culturale della politica, finita la sbornia dei leaderismi assertivi, padronali, pseudo-messianici.

Contributo contenuto nel rapporto di Legambiente 2014 “Ambiente in Europa. Economia verde: Italia-Germania è sempre 4 a 3?”

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