Shale gas, la rivoluzione che non piace alla Russia
Lo sfruttamento del gas non convenzionale da parte di Usa, Ue e Cina potrebbe privare Mosca del suo ruolo di fornitore energetico dominante, togliendo al Cremlino una formidabile arma economica e geopolitica. La cosiddetta shale gas revolution, ossia il massiccio incremento della produzione globale di gas non convenzionale da scisti bituminosi, sembra esser destinata a mutare profondamente gli equilibri energetici mondiali. Lo sfruttamento delle riserve di gas non convenzionale potrebbe permettere ad alcune nazioni di raggiungere l’indipendenza energetica, riducendo o eliminando del tutto le relative importazioni, o addirittura diventare esportatori netti di idrocarburi. Questo scenario implicherebbe la graduale marginalizzazione geopolitica di alcuni degli attuali produttori di gas naturale di tipo convenzionale, che vedrebbero intaccato il proprio ruolo di supplier energetici.
Tra questi figura certamente la Russia: per Mosca, infatti, la shale gas revolutionrappresenta una concreta minaccia, considerando che dispone delle maggiori riserve al mondo di gas naturale convenzionale (32 trilioni di metri cubi, tcm) e ne è la prima esportatrice al mondo: 200,7 miliardi di metri cubi di gas (mmc) nel 2012.
Inoltre, la concorrenza del gas non convenzionale – associata ad alcuni fattori endogeni quali una contrazione potenziale della produzione e dunque delle esportazioni, a meno che non si sfruttino al più presto nuovi giacimenti – potrebbe impedire alla Russia di sfruttare a fondo il prossimo massiccio incremento della domanda globale di gas. L’International Energy Administration (Iea) non a caso parla di “età dell’oro del gas”.
Il successo della shale gas revolution negli Stati Uniti, che entro il 2020 dovrebbero raggiungere una condizione di piena indipendenza energetica e diventare esportatori di gas, assieme agli sviluppi potenziali riguardanti anche Europa e Cina limiterebbe notevolmente il ruolo strategico della Russia come principale supplier energetico delle più assetate economie dell’Occidente e dell’Asia.
Un aumento della produzione non convenzionale della Cina e dei paesi Uecomporterebbe una contrazione delle rispettive importazioni di gas, con pesanti ripercussioni sulla strategia energetica del Cremlino: basti considerare che l’Ue rappresenta il maggior mercato di sbocco per le esportazioni di idrocarburi russe (oltre il 65% del totale), mentre la Cina e l’Asia più in generale (il cosiddetto vettore orientale d’esportazione) è il mercato energetico del futuro in ragione dei sempre più elevati consumi di Cina, Giappone, Corea del Sud e India.
Attualmente la Russia è il principale fornitore di gas dell’Unione, con una quota del 30%: considerando che l’Ue detiene il 10% delle riserve mondiali di shale gas, il suo eventuale sfruttamento consentirà ai paesi membri di compensare, almeno parzialmente, il crollo della produzione endogena di gas naturale di tipo convenzionale; ciò non sarà comunque sufficiente a far uscire l’Europa dalla sua condizione di dipendenza dalle importazioni di idrocarburi esteri. Cionondimeno, i paesi dell’ex blocco sovietico, con la Polonia in testa, spingono fortemente per lo sviluppo di quest’opzione energetica proprio perché restano i più dipendenti dalle importazioni di gas russo (in Bulgaria e Romania tale dipendenza oltrepassa il 90%).
Non sono pochi, però, gli ostacoli che si frappongono al pieno sviluppo dello shale gas europeo e che mettono in dubbio la possibilità di replicare il modello statunitense: problematiche ambientali, difformità legislative, densità di popolazione, opposizione popolare, scarsità di investimenti e tecnologie non all’altezza. densità di popolazione (le attività di esplorazione e di produzione del gas di scisto necessitano di vasti territori possibilmente non abitati), scarsità di investimenti e tecnologie non all’altezza, difformità legislative rispetto agli Usa. Ci sono inoltre problematiche ambientali come l’inquinamento delle falde idriche dovuto alle attività di frackingnecessarie per l’estrazione e il rischio terremoti che alimentano l’opposizione popolare e dei movimenti ambientalisti contro questa opzione energetica.
In Europa solo la Polonia e l’Ucraina (rispettivamente 1ª e 3ª nazione in Europa per riserve di gas non convenzionale) sono attivamente impegnate nello sviluppo delloshale gas; esse beneficiano inoltre della Global Shale Gas Initiative promossa dagli Stati Uniti per fornire supporto tecnologico e know how attraverso il coinvolgimento delle proprie compagnie energetiche. La Francia (2ª per riserve) ha vietato le esplorazioni, mentre Germania e Gran Bretagna sembrano orientate a regolamentare le attività di estrazione del gas di scisto.
Stando alle stime della Iea, nel 2035 la Ue necessiterà di 479 mmc di gas all’anno per soddisfare il proprio fabbisogno: motivo per cui la Russia, attraverso i gasdottiNorth Stream (già operativo, con una capacità di 55 mmc) e South Stream (in fase di sviluppo, con una capacità di 63 mmc), si è adoperata strategicamente per raddoppiare i volumi di gas attualmente esportati al fine di preservare la propria influenza sul continente.
Il grande disegno russo appare compromesso dalle pesanti distorsioni che caratterizzano il settore energetico del paese: il nodo principale non dipende dalla quantità di risorse attualmente disponibili quanto dall’effettiva capacità di sfruttarle nel momento in cui sempre più ingenti investimenti si rendono necessari per l’esplorazione dei nuovi giacimenti, l’avvio della produzione, la realizzazione di infrastrutture di trasporto oppure di costosi impianti di liquefazione e rigassificazione.
Si assiste così al progressivo esaurimento dei giacimenti siberiani (45% delle riserve federali), la cui produzione è interamente destinata al soddisfacimento del vettore occidentale di esportazione (Ue, Turchia e spazio post-sovietico), mentre le riserve non ancora sfruttate si trovano in aree remote e poco accessibili della Russia: penisola di Yamal, Siberia orientale, giacimenti offshore del mare di Barents e di Kara.
Se da un lato l’attivazione del giacimento di Bovanenko (dai 115 ai 145 mmc l’anno) ha permesso di mantenere elevati livelli di produzione totali, il congelamento sine diedel progetto Shtokman (con riserve di gas pari a 3,9 tcm) ha costituito, dall’altro, una seria battuta d’arresto per i piani energetici russi. La sua difficile collocazione geografica (Artico) e le condizioni climatiche avverse hanno infatti reso eccessivamente oneroso lo sviluppo del progetto, peraltro concepito primariamente per la commercializzazione di gas naturale liquefatto (gnl) verso i mercati nordamericani, ormai saturi a seguito della shale gas revolution.
In alternativa Mosca potrebbe decidere di destinare la produzione del giacimento Shtokman, attraverso il terminal gnl di Murmansk, e le riserve dell’isola di Sakhalin, attraverso quello di Vladivostok, al soddisfacimento della crescente domanda energetica asiatica: tuttavia, la carenza di investimenti per la modernizzazione del comparto energetico rallenta notevolmente questi progetti.
Considerata l’intenzione della Cina di sfruttare a sua volta le proprie riserve di gas di scisto, presto anche il vettore orientale di esportazione potrebbe essere depotenziato: alimentato, per il momento, dalla sola produzione di gnl proveniente dall’isola di Sakhalin, destinata in via principale alle esigenze di Giappone e Corea del Sud, esso è in attesa di ampliare la propria capacità non appena sarà ultimato il gasdotto sino-russo Altai (38 mmc annui).
La Cina è il 1° paese al mondo per riserve di shale gas (31 tcm). Il successo nella produzione di gas di scisto le consentirebbe di ridurre notevolmente la propria dipendenza estera: a fronte di una domanda di 593 mmc nel 2035, e al netto della produzione endogena, Pechino potrebbe dover importare “solamente” 120 mmc di gas all’anno, gran parte dei quali verrebbe peraltro assicurata dagli attuali fornitori (Turkmenistan, Myanmar e Qatar) e dal gasdotto Altai, depotenziando considerevolmente le ambiziose mire russe sul mercato energetico cinese.
Il diffondersi su scala globale di una shale gas revolution appare complicato da una serie di fattori economici e tecnologici, nonché dall’incognita inquinamento: alla Russia rimarranno così degli importanti spazi di manovra attraverso i quali consolidare la propria strategia energetica (che rimane fondata sul ruolo delle esportazioni). Molto dipenderà dalla sua capacità di implementare al meglio il vettore orientale, che si profila come il più redditizio economicamente.
Allo stesso tempo, però, Mosca dovrà affrontare con urgenza il problema della carenza di investimenti nel comparto energetico, che ne ipoteca l’adeguamento della propria capacità produttiva e delle annesse esportazioni all’accresciuta domanda energetica globale.
Lo conferma il fatto che la carenza di investimenti e la scarsità di moderne tecnologie impediscono alla Russia – per il momento – di prender parte alla rivoluzione dei gas di scisto (i cui giacimenti celerebbero circa 8 tcm, meno della metà delle stime espresse inizialmente da Gazprom), vanificando un’ulteriore opzione per accrescere i propri volumi di produzione.
Fonte: temi.repubblica.it/limes