L’Expo è la vetrina per rilanciare la green-economy
Ferragosto di presenza e lavoro per Matteo Renzi, come si addice in tempi di crisi, anzi di recessione. Prima visita l’Expo, per dire che ce la si può fare, poi sui territori in sofferenza. Seguendo il codice dei microcosmi si potrebbe dire, prima nei flussi e poi nei luoghi. L’Expo è un evento-flusso globale con 147 paesi che si rappresenteranno a Milano per sei mesi del 2015. È anche, sfrondato dal suo essere parco a tema nella società dello spettacolo globale, un evento interrogante, la coscienza dei luoghi sul come nutrire il pianeta, con quale energia per la vita, che rimanda al confronto aspro sui modelli di sviluppo. A tutt’oggi da una parte si producono obesi nell’altra si muore di fame, o ancora peggio di Ebola.
Il nutrire rimanda alla terra come valore d’uso agricolo e ambientale, energia e vita al territorio come costruzione sociale ed economica dei modelli di sviluppo. Al come sia possibile tenere assieme l’ossimoro green/economy, scatola semantica buona per tutti i contenuti e gli usi. Chi legge solo green sostiene con Serge Latouche «è ormai riconosciuto che il perseguimento indefinito della crescita è incompatibile con un pianeta finito, le conseguenze (produrre meno e consumare meno) sono ben lungi dall’essere accettate». Chi legge solo economy può declinare il tutto come grande bolla finanziaria, come finanziarizzazione delle commodities alimentari e dell’accaparramento delle terre in Africa e in America Latina… Con il rischio della monetarizzazione e del controllo dei beni comuni. In mezzo rimane l’interrogarsi sul rapporto tra capitalismo e limite, se sarà possibile fare della green economy un processo di sviluppo compatibile con il capitalismo che incorpora il limite ambientale nel suo processo di accumulazione. Una green economy legata all’idea di una diversità dei modelli di capitalismo e, nel caso dell’Italia, alla radice territoriale localistica del nostro apparato produttivo.
Da una parte come evoluzione del capitalismo molecolare, come adattamento delle economie produttive di piccola e media impresa sul lato della maggiore efficienza energetica, della compatibilità ambientale delle produzioni, di un’innovazione leggera dei processi produttivi e del design dei prodotti. Dall’altra come evoluzione di una tendenza al vivere “borghigiano”, la propensione alla migliore qualità locale della vita tipica anche dello spleen metropolitano di ampi segmenti di ceto medio riflessivo. Tendenze di un’evoluzione post-consumista dei modelli degli stili di vita e di consumo che fa da base culturale a fenomenologie come Slowfood, Eataly, comitati e reti di tutela e difesa del territorio. In mezzo tra radicalità ambientale e derive finanziarie si colloca una visione della green economy che vede una nuova rivoluzione industriale che abbia come scopo quello di spingere in avanti la frontiera della discontinuità tecnologica, per esempio sul piano della questione energetica, per sostituire un’era del combustibile fossile e della chimica derivata. È fatta da una riconversione possibile di una parte consistente del tessuto produttivo diffuso impegnato nello sforzo epocale del produrre merci altre con altri motori di energia, per altri consumi. Uno sforzo immane che ridisegna il paesaggio che verrà, con meno capannoni, più Km 0 in agricoltura e un Eataly per commercializzare il made in Italy dei terrritori e più Terra madre per vivere di sobrietà.
Latouche osserva che «questo sistema basato sulla dismisura ci porta in un vicolo cieco. Questa schizofrenia mette il teorico di fronte ad una schizofrenia paradossale: ha contemporaneamente la sensazione di sfondare delle porte aperte (green) e di predicare nel deserto (economy)». Carlin Petrini ci ha messo in guardia nel suo intervento su Repubblica sul rischio di una celebrazione dell’Expo senz’anima. Molto dipenderà, come sempre, per le utopie e per le eterotopie, dalle pratiche e dai soggetti se si pensa che green economy, come tutte le metamorfosi, si coniuga con green society. Molto dipenderà dalle nuove generazioni, se le nuove generazioni saranno in grado di contaminare il fare impresa, il ricercare e innovare ad esempio il nostro made in Italy. Dal rafforzarsi di una composizione sociale che ragiona di soft economy e di sviluppo sostenibile, di innovazione tecnologica, di creatività, di economia dell’esperienza, di sobrietà, di saperi formali contaminati con i saperi contestuali dell’agricoltura, dell’artigiania, della cura, del territorio che produce paesaggio, di welfare community, di smart city che verranno in rapporto con smart land. Parole chiave di un’eterotopia della transizione capitalistica che induce la trasformazione antropologica della cultura dell’impresa e dello sviluppo. Si passa da una logica di quantità, da fabbrica proliferante, ad una logica di qualità che incorpora innovazione, design e creatività. Non solo dentro le mura dell’impresa ma anche fuori dalle mura nell’agricoltura del territorio nel fare paesaggio.
Credo che ce la faremo ad attraversare anche questa discontinuità a condizione che proliferino e si diffondano un’antropologia e una cultura del progetto affidata alla nuova generazione sociale fatta di smanettoni di una tecnologia da soft power, ritornanti verso l’agricoltura, ai paesi abbandonati, alle aree del margine che diventano centro e imprese sociali costruttrici di welfare community. L’anima dell’Expo dipenderà molto dalla loro voglia di fare società, green society.
Fonte: Il Sole 24 ore