L’Accordo di Parigi e i passi avanti della cooperazione multilaterale sul clima
di Francesca Romanin Jacur, Università degli Studi di Milano
Dal 29 novembre al 13 dicembre 2015, 195 Stati si sono riuniti a Parigi e hanno adottato untrattato multilaterale per fare fronte al cambiamento climatico. Questo Accordo è il frutto di anni di negoziati miranti a raggiungere risposte efficaci al cambiamento climatico che siano condivisibili da tutti gli Stati del mondo: Paesi industrializzati, economie emergenti e Paesi in via di sviluppo. Esso rappresenta dunque un delicato compromesso che concilia esigenze molto diverse su un tema ambientale che tocca settori vitali delle economie nazionali (quali energia, industria, agricoltura), aspetti fondamentali della vita di tutti i giorni (quali riscaldamento domestico, trasporti) e che richiede un’importante cooperazione finanziaria e tecnologica per affrontare i disastri climatici.
L’Accordo di Parigi crea una piattaforma per una cooperazione rafforzata tra gli Stati dove si giocherà secondo regole condivise e trasparenti. I progressi portati dall’Accordo sono dunque essenzialmente il raggiungimento di obblighi procedurali di comunicazione periodica delle iniziative intraprese dagli Stati, della loro revisione e della valutazione dei progressi nei tre principali campi d’azione: la mitigazione, l’adattamento e il trasferimento di risorse finanziarie e di tecnologie.
Le premesse
L’Accordo di Parigi è una tappa importante nella cooperazione multilaterale per la lotta al cambiamento climatico iniziata più di venti anni fa con la Convenzione delle Nazioni Unite sul cambiamento climatico (United Nations Framework Convention on Climate Change – UNFCCC). La UNFCCC (1992) crea la cornice istituzionale (istituendo la Conferenza delle Parti (CoP), il Segretariato e gli organi sussidiari tecnici e finanziari) e stabilisce i principi generali che ancora oggi ispirano l’azione internazionale nella lotta ai cambiamenti climatici, quali il principio delle responsabilità comuni ma differenziate (UNFCCC, art. 3) e la necessità di stabilizzare le emissioni di gas serra a un livello che non sia pericoloso per la natura e per l’uomo (UNFCCC, art. 2). Come vedremo, questi principi hanno avuto un ruolo fondamentale nel processo negoziale che ha portato all’adozione dell’Accordo di Parigi e continueranno a svolgerlo nella sua attuazione negli anni a venire. In questo contesto, nel 1997 è stato adottato il Protocollo di Kyoto, entrato in vigore nel 2005, che stabilisce riduzioni quantitative vincolanti a carico degli Stati industrializzati che vi hanno aderito. L’efficacia del Protocollo in termini di riduzioni delle emissioni di gas serra a livello mondiale è stata fortemente limitata per due principali motivi: primo, la mancata ratifica degli Stati Uniti (all’epoca il Paese con le più alte emissioni di gas serra), dovuta all’avvicendamento della presidenza Clinton con quella di G. W. Bush, e secondo, per il fatto che le economie emergenti, tra cui India e Cina, non avevano obblighi di riduzione delle emissioni.
In questi vent’anni la cooperazione internazionale sul clima ha alternato deboli progressi, lunghi periodi di impasse e addirittura passi indietro (si veda Savaresi). In questo scenario va visto il trattato di Parigi: un Accordo che è una sintesi delle esperienze maturate in passato e che si presenta come uno strumento dinamico capace di dare risposte globalmente condivise dalla comunità internazionale al cambiamento climatico in una prospettiva di lungo termine.
Il testo dell’Accordo consta di un preambolo e di ventinove articoli ed è annesso a una decisione della CoP (Draft Decision -/CP.21) che lo completa, integrandone il contenuto e dando alcune linee guida per la sua attuazione. Da un punto di vista formale, l’Accordo è un trattato internazionale che sarà aperto alla firma il 22 aprile 2016 ed entrerà in vigore al raggiungimento di cinquantacinque ratifiche, rappresentanti almeno il 55% delle emissioni globali di gas serra (Draft Decision -/CP.21, par. 3; Accordo di Parigi, art. 21; sul dibattito e le contraddittorie posizioni politiche sulla natura giuridicamente vincolante dell’Accordo si vedano: Pauwelyn e Andonova, questo articolo sul Financial Times e, per una prospettiva statunitense, Bodansky).
I contenuti dell’Accordo
L’Accordo di Parigi si prefigge tre obiettivi, cui corrispondono relativi impegni per gli Stati: il primo obiettivo di mitigazione consiste nel ridurre la concentrazione di gas serra nell’atmosfera per mantenere l’innalzamento della temperatura globale «ben al di sotto» di 2 gradi centigradi, possibilmente entro 1,5 gradi centigradi, rispetto al periodo pre-industriale (art. 2.1(a) e art. 4); il secondo obiettivo di adattamento prevede il rafforzamento delle capacità nell’affrontare gli effetti del cambiamento climatico (art. 2.1(b) e art. 7); e il terzo mira a incrementare i finanziamenti per queste due attività di contrasto al cambiamento climatico (art. 2.1(c) e art. 9).
Nell’attuazione di questi obiettivi l’Accordo si ispira ai principi di equità e delle responsabilità comuni ma differenziate e delle rispettive capacità «in base alle rispettive circostanze nazionali» (art. 2.2). In questa prospettiva, sia con riferimento agli obiettivi nazionali di riduzione delle emissioni, sia per quanto riguarda le azioni di adattamento e gli impegni finanziari, l’Accordo riafferma il diritto di ciascuno Stato di scegliere le strategie più appropriate per contribuire al raggiungimento di tali obiettivi e di decidere il proprio percorso di sviluppo sostenibile e più nello specifico le priorità e i bisogni nazionali. L’Accordo non entra in dettagli e aspetti tecnici di come le misure e impegni saranno attuati in concreto, lasciando la definizione di questi aspetti a future decisioni della CoP, facendo ricorso ad una prassi di ‘delega normativa’ già ampiamente usata dall’UNFCCC e dal Protocollo di Kyoto.
a) Obiettivi nazionali di riduzione delle emissioni (Intended Nationally Determined Contributions o INDCs)
Gli Stati si impegnano ad adottare a livello nazionale misure per ridurre le cause del cambiamento climatico secondo le proprie capacità, circostanze e priorità quali, ad esempio, le condizioni economiche, il mercato dell’energia o la vulnerabilità ai cambiamenti climatici. Questa possibilità di scelta delle azioni più appropriate ha incoraggiato la partecipazione degli Stati, che hanno in gran parte già comunicato queste misure (189 Stati, rappresentanti il 95% delle emissioni globali) e periodicamente si impegnano ad aggiornarle in modo da poterne calcolare il contributo aggregato e quindi valutare se esse siano sufficienti per rimanere entro l’innalzamento di 1,5 gradi centigradi (è stato calcolato che il rispetto degli attuali impegni comporterebbe un innalzamento della temperatura globale intorno ai 3 gradi centigradi).
La comunicazione dei propri obiettivi nazionali è corredata da informazioni di tipo tecnico (ad esempio, le metodologie utilizzate per calcolare le riduzioni delle emissioni, il periodo-base di riferimento, i settori compresi: industria, trasporti, agricoltura, edilizia; i gas serra controllati) che ne facilitino la chiarezza, la trasparenza e la comprensione. Particolarmente rilevanti sono i calcoli delle emissioni derivanti dalle foreste, dall’agricoltura e in generale dalla gestione del territorio.
La determinazione degli impegni su base volontaria e nazionale dà massima espressione al principio delle responsabilità comuni ma differenziate e delle rispettive capacità «in base alle rispettive circostanze nazionali» e supera la rigida distinzione utilizzata nella UNFCCC e nel Protocollo di Kyoto tra categorie di Paesi industrializzati (i c.d. ‘Paesi Annesso I’) e Paesi in via di sviluppo (i c.d. ‘Paesi Non-Annesso I’), differenziando maggiormente ciascuno Stato e dando così una rappresentazione più realistica delle caratteristiche dei Paesi, come fortemente sostenuto dall’Unione Europea. D’altro lato, per evitare che questa diversificazione impedisca un’effettiva comparazione tra le varie misure nazionali e per garantire la coerenza del sistema, occorre che essa sia supportata da parametri di misurazione oggettivi e il più possibile uniformi. A tal fine, l’Accordo dispone che le regole di contabilizzazione delle emissioni siano adottate a livello multilaterale dalla CoP (art. 4.13), secondo standard scientifici validati dall’Intergovernmental Panel on Climate Change.
Inoltre, per far sì che gli Stati assumano impegni seri di mitigazione, l’Accordo prevede che questi siano riesaminati periodicamente ogni cinque anni e che siano più ambiziosi rispetto a quelli assunti in precedenza, creando dunque un meccanismo al rialzo (art. 4.3 e art. 4.9). Si vede qui uno dei compromessi centrali su cui si fonda l’Accordo di Parigi: mentre da un lato i contenuti e gli obiettivi che gli Stati si impegnano a raggiungere non sono vincolanti a livello internazionale (art. 4.2, seconda frase: «Parties shall pursue domestic mitigation measures, with the aim of achieving the objective of such contributions» – corsivo aggiunto), vi è invece l’obbligo giuridicamente vincolante di preparare, comunicare e aggiornare periodicamente gli INDCs (art. 4.2, prima frase: «Each Party shall prepare, comunicate and maintain successive nationally determined contributions that it intends to achieve» – corsivo aggiunto). Questa soluzione di compromesso era necessaria per assicurare la partecipazione della Cina e degli Stati Uniti, che si sono sempre dichiarati contrari ad assumere obblighi vincolanti di riduzione delle emissioni.
b) Obblighi di assistenza finanziaria
Per promuovere la transizione verso un’economia a basse emissioni di gas serra, l’Accordo di Parigi rafforza gli obblighi finanziari prevedendo che essi comprendano azioni di mitigazione e di adattamento, che siano rispondenti alle esigenze degli Stati beneficiari e che siano sempre più ‘ambiziosi’ (art. 9.3). Inoltre le procedure di accesso ai finanziamenti saranno semplificate per consentire un funzionamento più efficiente del sistema e per incentivare il coinvolgimento del settore privato (art. 9.9). Anche rispetto agli obblighi di assistenza finanziaria, l’Accordo combina le diverse esigenze dei Paesi donatori e dei Paesi beneficiari differenziandone gli obblighi: da un lato, impegna in modo vincolante gli Stati sviluppati a trasferire risorse finanziarie (art. 9.1) e a fornire ogni due anni informazioni quantitative e qualitative sulle risorse trasferite secondo parametri decisi dalla CoP; d’altro lato, gli ‘altri’ Stati contribuenti sono incoraggiati a comunicare le stesse informazioni su base volontaria (art. 9.5 e art. 9.7). Questa differenziazione degli impegni finanziari dei Paesi sviluppati rispetto a quelli di ‘altri’ Paesi è un’attuazione del principio delle responsabilità comuni ma differenziate, che si ritrova rispetto ad altri obblighi previsti dall’Accordo e nelle regole procedurali che dovrebbero garantire la trasparenza degli impegni e il controllo della loro attuazione.
c) Trasparenza e controllo sulla compliance
Un’altra concreta attuazione del principio delle responsabilità comuni e differenziate, si trova nell’art. 13.9 che prevede obblighi più stringenti per gli Stati industrializzati di comunicare le informazioni sui trasferimenti di assistenza finanziaria, di tecnologie e sulle iniziative di capacity building, mentre riconosce agli altri Stati una maggiore flessibilità nell’adempiere agli stessi impegni. Inoltre, per incoraggiare l’attuazione degli impegni assunti e rafforzare la fiducia reciproca e il mutuo affidamento tra gli Stati, l’Accordo prevede che tutte le comunicazioni nazionali siano chiare, comprensibili, pubbliche e siano sottoposte a revisione tecnico-scientifica, e laddove opportuno ricevano il necessario supporto tecnico per migliorarne la qualità (Draft Decision -/CP.21, par. 22; art. 13.11). L’effettiva attuazione di questi impegni da parte degli Stati industrializzati sarà monitorata periodicamente ogni cinque anni da parte della CoP a partire dal 2023 (art. 14).
L’insieme di queste iniziative mira a individuare le azioni realizzate, quelle ancora da svolgere, le migliori pratiche e le lacune su cui intervenire, oltre che a fornire una valutazione del progresso nel raggiungimento degli obiettivi di mitigazione, di adattamento e di quelli finanziari (art. 13.5).
Un elemento importante per assicurare l’effettiva attuazione degli impegni è la creazione di un meccanismo di compliance che raccoglierà e analizzerà le informazioni, permettendo di capire meglio le difficoltà nell’attuazione pratica delle misure ed eventualmente le cause del mancato rispetto degli obblighi (art. 15). Un meccanismo di questo tipo mira a rafforzare le capacità degli Stati, esercitando su di loro una certa pressione che li incoraggia ad essere più virtuosi. Il meccanismo di compliance previsto dall’Accordo di Parigi avrà natura facilitativa e sarà composto da 12 esperti, ma non avrà poteri sanzionatoria a differenza del suo omologo del Protocollo di Kyoto (Draft Decision -/CP.21, par. 103). Gli aspetti istituzionali e procedurali più specifici del funzionamento del sistema saranno regolati da una futura decisione della CoP.
Una valutazione
L’Accordo di Parigi è il risultato di un lungo percorso negoziale costruito negli anni, reso possibile grazie a un’abile regia diplomatica della presidenza francese della CoP. I negoziatori a Parigi si prefiggevano di combinare l’ambizione degli impegni di mitigazione, adattamento e trasferimento di risorse finanziarie e tecnologiche, da un lato, con l’accettabilità di questi impegni da parte di tutti gli Stati. Raggiungendo una serie di difficili compromessi, l’Accordo consolida, rafforza e amplia la cooperazione internazionale. Questi risultati sono raggiunti coniugando due approcci complementari: da un lato, la flessibilità geografica e temporale è assicurata dalla differenziazione su base individuale degli Stati nell’assunzione degli obblighi di mitigazione, adattamento e finanziari (il c.d. approccio bottom-up) e dal loro aggiornamento periodico al rialzo; d’altro lato, trasparenza, omogeneità e coerenza sono garantite da regole procedurali vincolanti decise a livello internazionale e applicabili a tutti (il c.d. approccio top-down), quali le norme di comunicazione e di valutazione dello stato di avanzamento nell’attuazione degli impegni assunti, i sistemi di revisione che aumentano il livello di ambizione rispetto a quelli preesistenti e il controllo sull’attuazione.
L’Accordo riafferma le buone pratiche (ad esempio, all’art. 5.2, prevede che i finanziamenti per i servizi ecosistemici delle foreste siano legati ai risultati ottenuti) e consolida le esperienze maturate nel corso di due decadi di cooperazione nel quadro della UNFCCC e del Protocollo di Kyoto. In particolare, con riferimento ai meccanismi di mercato, l’Accordo fa tesoro delle difficoltà e dei punti deboli emersi dal funzionamento dei meccanismi di scambio di quote di CO2 del Protocollo di Kyoto e dell’Emission Trading Scheme europeo. L’art. 6 stabilisce che i futuri meccanismi di cooperazione servono per aumentare il livello di ambizione degli impegni nazionali di riduzione delle emissioni (e non, come in precedenza, per facilitare il raggiungimento di impegni prestabiliti) e che dovranno essere gestiti da un sistema di governance robusto e trasparente, non generare esternalità ambientali negative e funzionare secondo regole di contabilità che evitino il doppio conteggio delle emissioni (Draft Decision -/CP.21, par. 38).
Vista l’urgenza del cambiamento climatico, una criticità temporale riguarda l’entrata in vigore dell’Accordo che dipenderà, come già anticipato, dal raggiungimento di cinquantacinque ratifiche rappresentanti almeno il 55% delle emissioni globali di gas serra. In questa prospettiva, memori del precedente del Protocollo di Kyoto, aleggia il rischio di cambiamenti politici negli Stati Uniti dove a breve ci saranno le elezioni presidenziali. Per accelerare i tempi di azione, la decisione che include l’Accordo prevede la sua – anche parziale – applicazione provvisoria prima del 2020 (Draft Decision -/CP.21, par. 106-133).
Rimane ora da vedere se gli Stati manterranno le promesse fatte a Parigi … e se lo faranno in tempo.