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Il papocchio ovvero l’Annus horribilis del negoziato sul clima

Il papocchio ovvero l’Annus horribilis del negoziato sul clima

di Alessandro Lanza

La Conferenza sul Clima di Varsavia si è chiusa sabato 23 novembre con un ritardo di quasi 24 ore che, considerando i risultati acquisiti, può tranquillamente definirsi ingiustificato. È stata la 19^ conferenza dei Paesi che hanno aderito alla convenzione sui cambiamenti climatici (COP19) con l’obiettivo ancora riaffermato, teoricamente, di arrivare alla definizione di un nuovo protocollo che dovrà essere firmato durante 21^ conferenza, che sarà ospitata a Parigi nel 2015. Che l’aria a Varsavia si sia fatta davvero pesante è evidente a tutti. Con estrema sintesi basterebbe osservare che il comunicato finale non parla più di “committments“, cioè di obblighi da parte dei Paesi, quanto di “nationally determined contributions“, ovvero di politiche decise unilateralmente dai Paesi. Un bel passo del gambero, non c’è che dire.

Alla luce di ciò che sta accadendo al negoziato sul clima, a rileggere le parole che sono state scritte del dicembre del 1997, nei giorni immediatamente successivi alla firma del protocollo di Kyoto, c’è da restare di sale per quanta ingenuità e quante speranze furono così mal riposte.

Il Protocollo – partito con un pesante fardello, considerata l’assenza degli Stati Uniti e dei paesi (un tempo detti) in via di sviluppo – avrebbe dovuto contribuire alla riduzione dei gas serra attraverso una serie di politiche nazionali ed internazionali.

Ratificato nel 2005, il protocollo imponeva tagli del 5,2% in media (in seguito rinegoziati), rispetto a quanto ciascun Paese emetteva nel 1990, dando tempo fino al 2012 per completare l’operazione. Questo limite in realtà è stato rivisto, trasformato, meglio precisato, durante le riunioni annuali dei partecipanti alla Convenzione quadro sui cambiamenti climatici e di quella dei firmatari del protocollo di Kyoto.

A partire dai primissimi incontri del post-Kyoto risultava tuttavia evidente come l’Unione Europea fosse piuttosto incline al compromesso – spesso al ribasso – pur di tenere sotto la stessa tenda un numero significativo di partecipanti. Questa volta (ma non è la prima, se solo avessimo memoria del comportamento dell’UE nella disastrosa conferenza di Copenaghen) l’impresa è stata sostanzialmente vana, e la conferenza appena conclusa a Varsavia pone il sigillo su una situazione davvero complessa.

Queste difficoltà sono in realtà in netta contraddizione con i risultati ottenuti attraverso il protocollo di Kyoto, i cui obiettivi sono stati nel complesso raggiunti. I paesi che hanno aderito al protocollo di Kyoto avevano un obiettivo di riduzione del 4,2% nel periodo 2008-2012 relativo all’anno base, e sono riusciti ad onorare l’impegno.

Ma il protocollo, che pure era partito con molte difficoltà, aveva dovuto conoscere nel tempo le defezioni di Canada, Australia, Giappone. Insomma, era rimasto un accordo sostanzialmente europeo.

A Varsavia, a conferma dei peggiori sospetti, è emerso con estrema chiarezza come gran parte dei governi presenti alla conferenza non intenda in nessun modo mettere a rischio quel barlume di speranza di una ripresa economica attraverso misure che, pur favorendo politiche ambientali, vengono viste come depressive del ciclo economico.

Che abbiano o meno ragione, ovvero che queste misure siano davvero depressive del ciclo economico, è un fatto che non interessa a nessuno se non a un manipolo di specialisti.

Risulta ormai molto evidente che molti Paesi non intendono spendere nulla in prevenzione per il beneficio delle future generazioni e preferiscono (implicitamente o meno) riparare i danni che il cambiamento climatico sta causando.

È come se i Paesi, avendo una vecchia automobile da gestire, preferissero aggiustare i guasti man mano che si presentano, piuttosto che mettere mano al portafoglio e comprare un’auto nuova.

Il problema è che i danni causati dal cambiamento climatico potrebbero costarci un multiplo del prezzo d’acquisto della nuova auto. In più – a rendere la metafora più stringente – è come se le riparazioni le facessi io, lasciando a mio figlio l’acquisto dell’auto nuova. Ad onor del vero va anche ricordato che la crescita relativa delle varie economie ha cambiato il quadro sotto i nostri occhi.

Nel 1990 i paesi industrializzati (includendo anche gli Stati Uniti, che non hanno firmato il protocollo, e il Canada, che dopo averlo firmato si è smarcato nel 2012) contabilizzavano il 63% delle emissioni contro il 34% per dei paesi in via di sviluppo. Nel 2012 queste quote si sono sostanzialmente rovesciate: il 39% per i pesi industrializzati e il 58% per i paesi in via di sviluppo. Il rimanente 3% è attribuito ai trasporti internazionali marini e aerei.

Il fatto è che i Governi sono sempre più riluttanti ad accettare politiche ambientali e di controllo delle emissioni. Naturalmente la situazione è diversa tra le diverse aree del nostro pianeta.

L’Unione Europea, che certo non dimostra capacità di leadership su questo come su altri temi, prosegue con la sua politica ambientale interna, che ha certo importanti implicazioni ed ambizioni. Su quanto sia stata di successo si potrebbe argomentare a lungo; certo è che per molti paesi dell’unione europea (inclusa l’Italia) il raggiungimento dell’obiettivo fissato a Kyoto è stato più figlio della recessione che di una politica ambientale attiva.

Gli Stati Uniti con l’amministrazione Obama hanno disatteso molte delle speranze che erano state formulate prima dell’elezione, forse con l’entusiasmo dei neofiti del post Bush. Sin dal primo mandato è risultato immediatamente evidente che, l’assenza di una maggioranza alla Camera avrebbe costretto il governo a negoziare con l’opposizione sulle politiche economiche da implementare. Tra la riforma sanitaria e il cambiamento climatico l’amministrazione Obama ha scelto la prima, pur cogliendo qualche significativo risultato – per via indiretta – attraverso l’incremento del consumo di gas naturale – legato a sua volta alla questione fracking – a dispetto del consumo di carbone.

Questa nuova tecnologia – e dunque le nuove prospettive dei combustibili non convenzionali – sta cambiando la faccia del mercato dell’energia. Gli Stati Uniti, stanno sviluppando energia a buon mercato, in particolare rispetto all’Europa, che senza dubbio sta contribuendo a finanziare la loro crescita economica.

Nonostante questo, durante l’incontro di Varsavia, gli Stati Uniti hanno spinto senza successo per l’adozione di un documento finale più stringente nelle sue conclusioni, trovando un (semi) alleato nell’Unione Europea, insieme ad alcuni paesi ferocemente contrari.

La Cina è un paese che ha compiuto decisivi passi in avanti nella politica ambientale, come dimostra la costante riduzione della quantità di energia e di emissioni per unità di prodotto. Le fonti di energia non fossile assumono un’importanza sempre più evidente nella composizione dell’offerta complessiva.

Nonostante questi indubitabili risultati, la Cina risulta essere totalmente riluttante, ieri come oggi, a ogni impegno stringente in campo ambientale. L’argomento principale di paesi come la Cina – che pure ha il suo fondamento – continua a godere dell’appoggio di tutti gli altri paesi meno industrializzati e può essere così sintetizzato: i paesi industrializzati, che hanno creato questa situazione con un percorso di crescita delle emissioni durato decine e decine di anni, non possono liberarsi di questa responsabilità, attribuendo tutta la colpa a quei paesi che, solo di recente, hanno cominciato a industrializzarsi e, per questa via, a contribuire all’incremento delle emissioni.

E’ solo negli ultimi anni che la Cina ha assunto un ruolo meno rigido considerando, per esempio, la possibilità che possa essere trovato un accordo non sul livello complessivo delle emissioni, quanto sul miglioramento dell’efficienza energetica. Tuttavia, com’è banale dimostrare, un aumento dell’efficienza energetica non è di per sé garanzia di una riduzione dell’emissioni.

Tutti i paesi di nuova industrializzazione hanno, in modi e tempi diversi, seguito l’esempio cinese.

Per proseguire nella nostra metafora automobilistica, la vettura di cui parliamo è stata acquistata dalla Cina di seconda mano e i paesi OECD l’hanno consegnata con 200 mila chilometri già percorsi, una scarsa manutenzione e per di più hanno cominciato ad usare la bicicletta. Ed oggi la Cina – avendo percorso l’ultimo 10% del totale dei chilometri – non vuole pagare le riparazioni per una vettura che solo oggi è sostanzialmente a suo carico, mentre i paesi OCSE ne hanno beneficiato lungamente nel passato.

In conclusione, tutti i Paesi escono da Varsavia meno ottimisti di prima e i 24 mesi che ci separano dalla conferenza di Parigi potrebbero non bastare.

Fonte: huffingtonpost.it/

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