Cop21 i protagonisti: L’Unione Europea
di Davide Triacca
L’Unione Europea è, da sempre, in prima linea nella lotta al cambiamento climatico. È un fatto. Per l’Europa, tuttavia, la transizione dall’essere un “Campione dell’agenda climatica globale” -come molti storicamente l’hanno considerata- all’essere uno dei tanti “non protagonisti” della Conferenza sul Clima di Parigi (COP21) rischia di essere troppo breve. Partiamo dall’inizio.
Già nel 1992 a Rio dei Janeiro, prima ancora che l’entrata in vigore del Trattato di Maastricht del novembre 1993 le desse la conformazione attuale, un Europa allora “unita” in rappresentanza di soli 12 Paesi -oggi sono 28- si distingueva per il contributo apportato alla nascita della Convenzione Quadro delle Nazioni Unite sui Cambiamenti Climatici (UNFCC) e per l’importanza strategica che ad essa attribuiva nella definizione delle proprie scelte di medio-lungo termine.
La successiva ratifica del Protocollo di Kyoto, che l’Europa ha rispettato negli obiettivi e rilanciato, quasi sola, verso un secondo Commitment Period, era solo la coerente conseguenza di quell’iniziale ambizione.
In seguito, l’innovatività della visione ed il coraggio dell’azione europea prendevano forma nel 2005 con il lancio dell’EU ETS: il sistema europeo di scambio delle quote di emissione di gas serra. Questo meccanismo, il primo e più importante al mondo, aveva –e ha ancora– l’obiettivo di “dare un prezzo al carbonio”: fare in modo, cioè, che l’emissione di anidride carbonica e di altri gas responsabili del cambiamento climatico globale abbia un costo economico, così da compensarne quello ambientale.
Nel 2009, poi, entrava in vigore il Pacchetto Europeo Clima ed Energia che, con la Direttiva “20-20-20”, impone ai Paesi dell’Unione di ridurre del 20% rispetto al 1990 le proprie emissioni di gas serra, di innalzare al 20% la quota di energia prodotta da fonti rinnovabili e di massimizzare l’efficienza energetica (riducendo del 20% i consumi).
L’Europa pareva aver compreso che l’irreversibilità del processo di Green Growth che aveva saputo avviare (in grado di creare benessere, posti di lavoro grazie all’accresciuta competitività e tracciare una strada concreta verso l’obiettivo dello sviluppo sostenibile) era tanto più determinante quanto largo fosse il divario tra il costo dell’energia per le proprie aziende e quelle statunitensi o cinesi; o quanto alto fosse il costo sociale ed ambientale di un modello di crescita non sostenibile.
Anche alla luce di questo, alla vigilia della conferenza su clima di Copenaghen 2009 in pochi avrebbero saputo prevedere un simile fallimento; certamente non causato dalla posizione dell’Europa, ma molto probabilmente favorito dalla ridotta capacità di gestire un appuntamento tanto importante proprio sul territorio dell’Unione.
Forse anche da allora, l’ambizione europea si è affievolita e il coraggio delle posizioni è sempre più spesso frutto di mediazioni interne al ribasso, magari con i propri Paesi Membri più orientali la cui economia è fortemente basata sull’uso dei combustibili fossili.
Complici la riduzione delle proprie emissioni -dato positivo- e il contestuale aumento di quelle di molti altri paesi -dato preoccupante-, l’Europea vive una graduale marginalizzazione del proprio ruolo: le emissioni europee di gas serra sono passate dal 19% del totale mondiale nel 1990, all’11% nel 2013, sino al 4-5% previsto nel 2030. Non sarà certo grazie al proprio “peso” che l’Europa potrà continuare a guidare l’agenda climatica globale.
In questo non aiuta la ridottissima ambizione -risultato dei compromessi al ribasso menzionati poco fa- del Framework 2030 che porta gli obiettivi europei al 27% di quota di energia da fonti rinnovabili; 27% di aumento dell’efficienza energetica (peraltro, obiettivo non vincolante) e 40% di riduzione delle emissioni entro il 2030: tutti obiettivi “in traiettoria”, raggiungibili cioè senza ulteriori sforzi rispetto a quelli già profusi sino ad oggi.
La principale sfida della COP21 di Parigi sarà quella di compiere il passo in più verso l’obiettivo dei 2 gradi rispetto ai soli INDC che, anche se universalmente rispettati, non saranno sufficienti. Nei giorni scorsi le istituzioni europee hanno tentato di quantificare proprio la disponibilità dell’Unione a compiere questo passo addizionale rispetto agli impegni già assunti prima di Parigi: la Commissione, in disaccordo rispetto al Parlamento che richiedeva il 40%, si sarebbe limitata a valutare l’ipotesi massima del 33% di aumento massimo di efficienza energetica entro il 2030. Davvero troppo poco per il clima e davvero troppo poco per la competitività delle nostre imprese.
La speranza è che l’Europa sappia trarre beneficio da contingenze che difficilmente si ripresenteranno, ritrovando già in questi giorni a Parigi l’armonia d’intenti e la visione prospettica di cui necessita per tornare ad essere la guida globale verso un modello di sviluppo sostenibile.