I negoziati sui cambiamenti climatici: a che punto siamo?
di Carlo Carraro e Marinella Davide
Si è tenuto a Bonn il secondo appuntamento negoziale del 2013, che dal 3 al 14 giugno ha riunito i delegati dei Paesi parte della Convenzione Quadro sui Cambiamenti Climatici (UNFCCC) per lavorare insieme alla definizione del futuro strumento per la riduzione delle emissioni globali di gas ad effetto serra. Gli elementi al centro dell’attuale dibattito negoziale sono il frutto dei seppur esili progressi fatti dopo che la tanto attesa Conferenza di Copenaghen, tenutasi nel 2009, non è riuscita a trovare il necessario consenso per l’adozione del nuovo accordo internazionale per la riduzione delle emissioni.
L’urgenza di un’azione climatica coordinata è dettata, oggi come allora, dagli allarmanti dati sulla continua crescita delle emissioni globali e dal fatto che il primo periodo di impegni previsto dal Protocollo Kyoto è giunto al termine. Come sottolineato da un recente report dell’Agenzia Internazionale dell’Energia, la comunità internazionale è ben lontana dal raggiungere l’obiettivo di contenere l’aumento della temperatura atmosferica al di sotto dei 2°C rispetto ai livelli preindustriali. Da un lato, la concentrazione di anidride carbonica nell’atmosfera ha ormai superato la soglia di 400 ppm (parti per milione), fatto mai avvenuto negli ultimi 800 mila anni di vita del nostro pianeta (e men che meno nei 10 mila anni in cui e’ abitato da esseri umani). Dall’altro, l’attuale quadro di misure adottate nei diversi paesi del mondo sembra portarci a fine secolo ad una temperatura media tra i 3.6 ed i 5.3°C, con conseguenze come l’aumento nella frequenza e intensità di eventi estremi, l’innalzamento del livello del mare, i cambiamenti nel regime delle precipitazioni oltre a importanti squilibri degli ecosistemi.
Un passo indietro: da Kyoto a Doha
Vale la pena ricordare come l’obiettivo imposto dal Protocollo di Kyoto ai Paesi industrializzati, che collettivamente corrispondeva ad una riduzione del 5,2% nel periodo 2008-2012, era stato concepito come un primo passo verso l’adozione di una serie di obblighi successivi. Pertanto, sin dalla sua entrata in vigore nel 2005, una serie di negoziati volti a definire le azioni per il periodo successivo al 2012 hanno impegnato congiuntamente Paesi industrializzati e in via di sviluppo sulla base di un’agenda decisa a Bali nel 2007. Un ruolo fondamentale in questo processo è stato giocato dagli Stati Uniti, che hanno rifiutato di prendere parte sia al primo periodo del Protocollo di Kyoto, sia ad un eventuale successivo protocollo, come pure dalle maggiori economie emergenti, le cui emissioni hanno ormai superato quelle dei Paesi industrializzati, ma che sono sempre state riluttanti ad assumere impegni di riduzione vincolanti a causa delle loro non-responsabilità storiche e delle loro priorità di sviluppo economico. Il dibattito negoziale si è di fatto cristallizzato attorno a questa dicotomia tra Paesi industrializzati e Paesi in via di sviluppo, con reciproche richieste di impegno e assunzione di responsabilità.
Lo stallo negoziale è stato in parte interrotto dalla Conferenza delle Parti tenutasi a Durban nel 2011, a conclusione della quale è stato avviato un nuovo percorso per la definizione di “un protocollo, un altro strumento giuridico oppure una conclusione condivisa con forza giuridica” che coinvolga tutte le parti, da adottarsi entro il 2015 e presumibilmente attuarsi dal 2020. Nella stessa sede è inoltre stato raggiunto un accordo sul secondo periodo di adempimento del Protocollo di Kyoto, a partire dal 2013 a cui però non tutti i Paesi hanno deciso di aderire. Nello specifico, oltre agli Stati Uniti, anche Giappone, Russia e Zelanda hanno comunicato che non assumeranno ulteriori obblighi, mentre il Canada ha annunciato il completo ritiro dal Protocollo stesso.
Su questi elementi poggia il cosiddetto “Doha Climate Gateway”, adottato dalla diciottesima – ed ultima in ordine temporale – Conferenza delle Parti (COP-18) tenutasi nella capitale del Qatar alla fine del 2012. In particolare, il pacchetto di decisioni uscito dalla Conferenza comprende il testo del tanto atteso (e a lungo rimandato) emendamento al Protocollo di Kyoto. Esso stabilisce che la durata del secondo periodo di impegni andrà dall’inizio di gennaio 2013 al 31 dicembre 2020, e chiede alle parti di aumentare il livello di ambizione dei propri obiettivi, rivedendoli entro il 2014 in accordo con un target globale volto a ridurre le emissioni nel 2020 di almeno 25 – 40% rispetto ai livelli del 1990.
Il documento approvato a Doha include inoltre una prima lista di Paesi che hanno espresso la volontà di continuare a lavorare sotto il Protocollo di Kyoto. Tra questi l’Unione Europea che, con il suo ormai noto obiettivo di riduzione pari al 20% entro il 2020 rispetto al 1990 (con l’obiettivo di estenderlo fino al 30%), è stata uno dei principali sostenitori della continuazione dell’azione climatica internazionale nell’ambito del Protocollo di Kyoto. In effetti, gli impegni presi a Doha dall’Unione Europea sono in linea con le decisioni gia’ prese in modo unilaterale dall’Unione Europea stessa e producono il grande beneficio di mantenere in vita il debole mercato delle emissioni europeo, che altrimenti sarebbe probabilmente andato verso il collasso.
Seguendo l’esempio dell’Unione, anche Australia, Bielorussia, Kazakhistan, Islanda, Liechtenstein, Monaco, Norvegia, Svizzera e Ucraina, si sono unite alla seconda fase di impegni. La nota dolente è rappresentata dal fatto che, senza la partecipazione delle grandi economie mondiali, le emissioni cumulativamente coperte dall’accordo relativo al periodo 2013-2020 ammontano a circa il 15% di quelle mondiali. Si tratta quindi di una azione insufficiente a controllare l’incremento della temperatura, non solo sotto i due gradi ma nemmeno sotto i tre gradi.
Oltre ai target, l’emendamento chiarisce anche le regole che governeranno il mercato dei permessi e l’uso dei meccanismi flessibili nei prossimi otto anni. Nello specifico, i Paesi sviluppati senza un target per il 2020 possono continuare a partecipare ai progetti di Clean Developing Mechanism (CDM), ma senza la possibilità di acquisire e scambiare sul mercato i crediti di emissione derivanti da tali attività. Un’altra questione critica era la possibilità di trasferire i permessi di emissione in eccesso dal primo al secondo periodo di impegni. In questo caso i delegati hanno deciso di limitare tale opportunità attraverso una serie di condizioni che di fatto restringono ulteriormente il futuro uso dei crediti derivanti dai meccanismi flessibili.
Per quanto riguarda invece la Durban Platform, il nuovo processo negoziale lanciato a Durban e che mira a definire l’azione climatica dal 2020 in poi, la Conferenza di Doha ha di fatto definito un calendario di incontri per i prossimi due anni, dove le parti proveranno a definire i contenuti del futuro accordo sulla riduzione delle emissioni entro maggio 2015.
La Conferenza di Doha ha anche adottato due testi separati che riguardano rispettivamente gli impegni finanziari di lungo termine e il cosiddetto “loss and damage”, argomenti che fino ad allora erano parte del più ampio paniere dei negoziati sulla cooperazione a lungo termine.
Il trasferimento di fondi dai Paesi industrializzati verso quelli in via di sviluppo è una questione aperta ormai da molti anni. Nonostante le promesse fatte aCopenaghen e ribadite a Cancun e Durban, i Paesi non sono riusciti fin ad ora atrovare un accordo equilibrato sulla natura dei fondi e sulla loro gestione. A Doha l’impegno di fare chiarezza sulle questioni monetarie è stato rimandato alla fine del 2013 alla conferenza di Varsavia, con l’obiettivo di sostenere le nazioni sviluppate a individuare nuove fonti di finanziamento per la mobilitazione dei 100 miliardi di dollari promessi per il periodo 2013-2020 a sostegno di misure di mitigazione e adattamento nelle nazioni in via di sviluppo.
Il documento su “loss and damage” invece affronta il tema delle perdite e idanni associati agli effetti negativi del cambiamento climatico nei paesi più vulnerabili. Esso invita tutti i paesi a rafforzare l’azione sui diversi aspetti di questo problema. Nonostante la riluttanza da parte dei paesi sviluppati,l’approccio potrebbe essere formalizzato in un nuovo meccanismo internazionalein occasione della prossima Conferenza nel 2013.
Verso Parigi 2015, passando da Varsavia e Lima
Partendo da queste premesse, le parti si sono incontrate a Bonn alla fine di aprile e all’inizio di giugno in occasione dei due maggiori incontri negozialiprevisti in preparazione della diciannovesima Conferenza delle Parti (COP-19)che si terrà a Varsavia il prossimo novembre. Per quel che riguarda la discussione all’interno della Durban Platform, i negoziati sono stati strutturati in due gruppi di lavoro: uno volto a definire un accordo globale ed efficace entro il 2015 e l’altro per discutere opzioni che aumentino il livello di ambizione degli sforzi da parte di tutti da qui al 2020 ed evitare il cosiddetto “ambition gap”, cioè la mancanza di un’ambiziosa azione di mitigazione coordinata fino all’entrata in vigore del nuovo accordo.
All’interno del primo gruppo sono state prese in considerazione possibili misure per il rafforzamento delle azioni e la definizione degli impegni di mitigazione, combinando misure sia top-down che bottom-up. In questa occasione gli Stati Uniti si sono fatti avanti con la proposta che ogni paese possa definire autonomamente il proprio contributo alla lotta contro le emissioni in modo da far emergere uno spettro di impegni nazionali da includere nel futuro accordo. In totale opposizione, alcuni Paesi in via di sviluppo, a loro volta, hanno rispolverato una vecchia proposta fatta dal Brasile secondo cui gli sforzi di mitigazione devono essere distribuiti in base al contributo storico di ogni nazione all’aumento della temperatura atmosferica piuttosto che agli attuali flussi di emissione.
Tra le azioni per aumentare l’ambizione degli impegni al 2020, i delegati hanno identificato una serie di questioni fondamentali, come ad esempio il ruolo delle energie rinnovabili e dell’efficienza energetica, dei finanziamenti e degli investimenti per il controllo del clima, dell’opportunità di sfruttare politiche di land-use. Anche questioni come equità e deforestazione hanno riscosso una discreta attenzione.
Le due più recenti settimane di dibattito sono state tuttavia offuscate dal blocco che la Russia, con il supporto di Ucraina e Bielorussia, ha imposto ai lavori all’interno di uno dei tre organi della Conferenza delle Parti, che avrebbe tra le altre cose dovuto discutere della riforma dei CDM e del “loss and damage”. Nello specifico, i tre Paesi, le cui obiezioni su alcune questioni riguardanti il secondo periodo del Protocollo di Kyoto erano state ignorate alla fine della COP di Doha, chiedono che vengano modificate le regole per l’adozione delle decisioniall’interno della Conferenza. La questione è di certo complicata ma, a detta di molti, l’attuale regola del consenso è in effetti troppo debole ed ha spesso creato controversie ed imbarazzo.
Conclusione
Nonostante qualche tensione e le molte cose ancora da definire, il dibattito è sembrato nel complesso costruttivo e con qualche incoraggiante segno di apertura. Come ribadito anche dalla Segretaria della Convenzione Quadro, Christiana Figueres, il 2013 è l’anno delle idee. Idee che devono essere ambiziose e condivise per poter sperare di avere un buon accordo in vigore al 2020. Quella di Varsavia è la prima di tre Conferenze molto importanti (le due successive saranno a Lima e Parigi). Possiamo solo aspettarci che ponga solide basi su cui costruire il processo da qui al 2015.
Nel frattempo rimane la consapevolezza che, in attesa del nuovo accordo, la partecipazione al secondo periodo di impegni del Protocollo di Kyoto è insufficiente per raggiungere obiettivi concreti di riduzione delle emissioni. Anche i target volontari proposti dai Paesi negli anni precedenti, cadono per ora al difuori di qualsiasi vincolo formale. Da qui al 2020 almeno, molto dipenderà dalla reale volontà dei singoli Stati di intraprendere politiche nazionali che riescano a conciliare obiettivi di riduzione con priorità di crescita o ripresa economica. In questo contesto, il recente discorso di Obama alla Georgetown University lascia ben sperare per la sua lungimiranza e potenziale efficacia, e la posizione degli Stati Uniti, si sa, giocherà un ruolo fondamentale nell’imminente futuro della politica internazionale per la lotta ai cambiamenti climatici.
Riferimenti bibliografici
Sito ufficiale dell’UNFCCC unfccc.int
International Energy Agency (2013) “Redrawing the Energy-Climate Map,” World Energy Outlook Special Report. www.worldenergyoutlook.org/
Carraro C., “Nuove disillusioni da Doha” post sul blog www.carlocarraro.orghttp://www.carlocarraro.org/
UN News Center (14 giugno 2013 ), “UN climate change talks in Bonn see concrete progress towards new agreement” http://www.un.org/apps/news/
Earth Negotiations Bulletin (6 maggio 2013), Vol. 12 No. 568, “Bonn Climate Change Conference – April 2013 – Summary and Analysis”, www.iisd.ca/vol12/enb12568e.
Earth Negotiations Bulletin (17 giugno 2013), Vol. 12 No. 580, “Bonn Climate Change Conference – 3-14-June 2013 – Summary and Analysis”www.iisd.ca/vol12/enb12580e.
Discorso del Presidente Obama alla Georgetown University, disponbile suwww.youtube.com/watch?v=