COP20 di Lima: un nuovo punto di vista
di Carlo Carraro
Nonostante siano già numerosi i commenti circolati sulla Ventesima Conferenza delle Parti (COP20) dell’UNFCCC conclusasi a Lima lo scorso week end, vale la pena approfondire ulteriormente la questione. L’attenzione di molti commentatori è stata posta soprattutto sugli impegni nazionali di riduzione delle emissioni di gas serra (Individually Nationally Determined Contributions – INDCs): c’è chi ne evidenzia i benefici – nonostante gli obiettivi stabiliti ad oggi non si possano ancora dire ambiziosi – e chi i punti deboli – soprattutto in riferimento alla discrepanza esistente tra tali target e lo sforzo che sarebbe invece necessario per mantenere l’aumento delle temperature entro i due gradi a fine secolo. Sarà compito della COP21 di Parigi 2015, e del percorso che da essa ci separa, raggiungere degli INDCs sufficientemente efficaci ed impostare un adeguato sistema di verifica per confrontare e valutare in modo oggettivo gli sforzi di mitigazione di ciascun Paese.
Ma l’enfasi posta sugli impegni nazionali oscura in qualche modo il vero tema clou della COP20, tema che sarà al centro anche dei prossimi negoziati: la difficoltà di trovare un accordo sulle risorse necessarie a raggiungere gli obiettivi di mitigazione (cioè di riduzione delle emissioni di gas-serra), sulla loro distribuzione tra le diverse regioni del mondo e sulla scelta dei meccanismi per finanziare gli ingenti investimenti che saranno necessari per la riduzione delle emissioni e per l’adattamento al cambiamento climatico in corso.
Il Fondo Verde per il Clima
A Lima, la discussione si è incentrata sul finanziamento del Fondo Verde per il Clima, istituito a Copenaghen nel 2009, ed in particolare sugli aspetti distributivi del Fondo (quanto riceveranno e quanto contribuiranno i Paesi in via di sviluppo) piuttosto che sulle migliori soluzioni per utilizzarlo in modo efficiente.
Nonostante si sia parlato anche della necessità di migliorare lo sviluppo tecnologico, il trasferimento di tecnologie verdi e il capacity building nei paesi in via di sviluppo, tutti temi urgenti da affrontare, nel dibattito è stato il Green Climate Fund a farla da padrone. Con risultati, purtroppo, ancora insoddisfacenti.
E’ comunque incoraggiante che una prima importante tappa – i 10,2 miliardi di dollari impegnati entro la fine del 2014 – sia stata raggiunta. Da sottolineare inoltre che il 50% del Fondo Verde per il Clima è stato allocato per misure di adattamento, tema che ha goduto di grande attenzione alla COP 20 di Lima, ed in particolare per aiutare i Paesi più poveri a far fronte ai costi che subiranno a causa di un pianeta in riscaldamento.
Tuttavia, i fondi che sarebbero necessari a decarbonizzare l’economia mondiale al 2050, ad affrontare l’adattamento ai cambiamenti climatici e a coprire i costi crescenti di danni e perdite causati da eventi estremi, sono nell’ordine dei trilioni di dollari nei prossimi decenni. Anche raggiungendo i 100 miliardi di dollari al 2020, il Fondo Verde per il Clima sarà ancora lontano dal riuscire a coprire, da una parte, gli investimenti necessari per l’adattamento agli impatti dei cambiamenti climatici (in particolare nei Paesi in via di sviluppo) e, dall’altra, quelli per supportare la transizione verso un’economia a bassa intensità di carbonio.
Segnali politici
Ma piu’ ancora che destinare risorse addizionali per nuovi investimenti e’ necessario cambiare direzione a quelli in corso e a quelli pianificati dal mondo delle imprese. Compito cruciale dei governi è pertanto quello di mandare ai mercati e agli investitori dei segnali chiari, coerenti e di lungo termine, per correggere un sistema di prezzi che non tiene conto delle esternalità ambientali e rassicurare chi investe in tecnologie low-carbon sulla stabilità dei rendimenti di lungo periodo di tali investimenti.
Questi temi sono stati largamente trascurati alla COP20. In effetti, il fatto stesso che i governi, come d’abitudine in sede negoziale negli ultimi anni, abbiano deliberatamente cavillato per due settimane sui particolari di un accordo per il clima, piuttosto che concentrarsi sui suoi elementi portanti, rappresenta per il settore privato un chiaro segnale che gli investimenti in tecnologie a basse emissioni di carbonio sono ancora poco sostenuti da un contesto politico adeguato.
Innovazione
Sono due i principali canali che i governi dovrebbero sfruttare per fornire chiari segnali e incentivi agli investitori.
In primo luogo, un governo dovrebbe stimolare l’innovazione, che rappresenta la chiave per un futuro a basse emissioni di carbonio. Le proiezioni dell’OCSE sulla crescita della popolazione mondiale indicano che gli abitanti del pianeta aumenteranno da 7 miliardi di persone (2010) a oltre 9 miliardi di persone (2050). Il PIL globale quasi quadruplicherà, richiedendo, sempre secondo l’OCSE, l’80% in più di energia. Perche’ questa crescita sia sostenibile, l’energia dovrà essere per lo più generata con basse o nulle emissioni di carbonio. Alla COP20, i governi sono stati invitati ad implementare iniziative per lo sviluppo di un mix energetico che sostenga tutte le tecnologie a basse emissioni, anziché focalizzarsi su di un numero limitato di tecnologie verdi. Ciononostante, diversi Paesi hanno dimostrato posizioni contrarie nei confronti di alcune specifiche tecnologie, e in particolare verso quelle per la cattura e stoccaggio di carbonio (CCS) e verso le tecnologie nucleari.
Come gia’ sottolineato, per incentivare lo sviluppo di innovazioni in tecnologie verdi è necessario dare un prezzo al carbonio. Un prezzo al carbonio su scala globale rappresenterebbe un segnale forte da parte dei governi per comunicare senza mezzi termini che “si sta facendo sul serio”. Se applicato in modo efficace, questo non solo favorirebbe l’allontanamento progressivo dalle energie fossili, ma fornirebbe anche rilevantivantaggi economici. Sono stati abbondanti a Lima gli eventi collaterali proprio su questo tema. Goccia dopo goccia, Paese dopo Paese, il consenso verso una globalizzazione del prezzo del carbonio sta crescendo, grazie anche alle importanti decisioni prese al vertice delle Nazioni Unite a New York lo scorso settembre. Anche se non ci sono stati concreti progressi durante la COP20, ci si aspetta che nel corso del 2015, in preparazione alla COP21, un numero crescente di Paesi adotti misure di fiscalità verde e/o introduca un mercato del carbonio simile a quello esistente in Europa.
Investimenti
La seconda strada da perseguire e’ quella degli investimenti in soluzioni organizzative, tecnologiche, infrastrutturali a basso tenore di carbonio. Nessun governo è ancora a pieno regime nella regolamentazione e nella definizione di incentivi, di partnership pubblico-private, di strumenti di condivisione dei rischi o di altre misure per sostenere investimenti “verdi”. L’avversione dei governi a destinare importanti risorse per investimenti nello sviluppo di tecnologie e soluzioni a basse emissioni è dovuta almeno in parte al timore che politiche di questo tipo potrebbero richiedere un sostegno prolungato da parte del settore pubblico. Ma così non sarebbe: i governi dovrebbero promuovere l’innovazione low-carbon solo per un periodo di tempo limitato, giusto il tempo necessario a stimolare e lanciare un percorso economico green. Una volta che questo percorso sarà avviato, i sistemi economici saranno in grado di procedere in modo autonomo, sulla base di un semplice calcolo di convenienza, lungo un sentiero di sviluppo a basso tenore di carbonio e non vi sarà alcuna necessità di ulteriori interventi normativi.
Un altro deterrente all’investimento climate-friendly è la presunta natura “alto costo – basso rendimento” delle energie e tecnologie pulite. Ma nel caso delle tecnologie per le energie rinnovabili, i maggiori costi iniziali sono compensati dai minori costi di gestione rispetto alle energie fossili, oltre che dai benefici derivanti dalla riduzione delle emissioni di gas serra, ovvero dall’evitare i costi associati agli impatti negativi dei cambiamenti climatici.
L’eredità di Lima
Il documento adottato alla COP20 chiede ai prossimi negoziati un “accordo ambizioso”, che consideri le “responsabilità differenziate e le rispettive capacità” di ogni Paese. L’approccio delle “responsabilità comuni ma differenziate”, che riflette il forte divario ancora esistente e il differente contributo in termini di emissioni tra nazioni povere e ricche, ha caratterizzato le negoziazioni sui cambiamenti climatici dal 1992. Nella Lima call for climate action, si ribadisce tale approccio, ma si chiede anche ai Paesi di andare oltre il loro “impegno attuale” a favore del clima, senza tuttavia definirlo in modo preciso. Ciò ovviamente non alimenta l’aspettativa di raggiungere impegni nazionali sufficienti a mantenere l’incremento della temperatura media a fine secolo entro il limite dei 2°C. Ma notizie migliori dovrebbero arrivarci nel corso del primo trimestre del 2015, quando gli impegni di riduzione delle emissioni di tutti i Paesi dovranno essere resi pubblici.
Ancor meno positivo il fatto che nessuna delle azioni che potrebbero davvero fare la differenza nell’ambito della finanza per il clima sia stata seriamente affrontata alla COP 20. E tale difficoltà non sorprende. Chiedere a 194 Paesi di trovare un consenso sulle diverse questioni legate ai cambiamenti climatici – non solo relativamente ai finanziamenti per far fronte al cambiamento climatico – è, come ha affermato il Segretario Esecutivo UNFCCC Christiana Figueres, “very, very challenging“. Si può perciò guardare positivamente al fatto che si sia comunque concluso con “a range of key decisions agreed and action-agendas launched, including how to better scale up and finance adaptation, alongside actions on forests and education”. Tuttavia, siamo ancora ben lontani da risultati soddisfacenti ed é necessario continuare ad insistere perché i futuri INDCs definiscano impegni significativi e verificabili.
Complessivamente, i risultati della COP20 di Lima sono coerenti con le aspettative: insieme ad altri eventi importanti del 2014 (il vertice sul Clima delle Nazioni Unite a New York, laPolicy Framework dell’UE in materia di energia e clima, l’accordo USA-Cina, etc.) la COP 20 ha contribuito a spianare la strada all’importante accordo di Parigi 2015. Ma soprattutto ha concretizzato l’idea degli impegni nazionali di riduzione delle emissioni, fondamentale per realizzare una grande partecipazione ad un accordo post 2020. Ora è tempo di pensare alla finanza per il clima e di trovare un accordo non solo sulla dimensione delle risorse aggiuntive da destinare alla mitigazione dei cambiamenti climatici e all’adattamento ai loro impatti, ma soprattutto sui segnali politici per reindirizzare l’enorme quantità di risorse dedicate ogni anno ad infrastrutture energetiche, edifici, sviluppo delle città e trasporti verso un percorso di crescita a bassa intensità di carbonio.
Fonte: carlocarraro.org