Rischio climate change in bilancio per tutte le società
Tutte le società quotate, senza eccezioni, potrebbero essere chiamate ad esplicitare i rischi che corrono in relazione al cambiamento climatico. È quanto previsto dalla prima bozza di regole predisposte dalla Task Force on Climate Related Financial Disclosures (Tcfd), un organismo istituito l’anno scorso dal Financial Stability Board (Fsb) su mandato del G-20.
Inizialmente si era pensato di coinvolgere soltanto il settore finanziario, ma lo spettro di intervento è stato allargato a 360 gradi, includendo qualsiasi società che sia quotata in Borsa o abbia emesso obbligazioni, più tutti i soggetti finanziari (quotati e non), come le società di asset management e i fondi pensione.
Il regime sarà volontario, ma in molti Paesi le autorità di mercato già oggi prescrivono di informare gli investitori anche dei rischi connessi al climate change. I regolatori sperano di riuscire a standardizzare il più possibile i metodi e le procedure, con l’obiettivo finale di contenere i potenziali danni se nella difficile transizione verso un mondo a minori emissioni qualcosa dovesse andare storto. I rischi non riguardano infatti solo l’ambiente e la notra salute, ma sono anche di ordine finanziario, come già oggi è evidente nel settore assicurativo, che deve confrontarsi con una maggiore frequenza di eventi climatici estremi, come alluvioni o periodi di intensa siccità.
Altri rischi sono per ora solo potenziali, ma niente affatto trascurabili. L’obiettivo di contenere il riscaldamento globale entro 2° C – o addirittura entro 1,5°C, come i Paesi più virtuosi si sono impegnati a fare nei recenti accordi di Parigi – comporterebbe la necessità di rinunciare ad estrarre gran parte delle riserve di combustibili fossili. Se il mercato dovesse improvvisamente cambiare opinione sulle valutazioni delle compagnie petrolifere e carbonifere potrebbero esserci serie ripercussioni. Il Comitato europeo per il rischio sistemico (Cers), creato da Bruxelles in risposta alla crisi finanziaria globale del 2008-2009, stima che nella Ue banche, fondi pensione e compagnie di assicurazione abbiano in mano azioni e obbligazioni di tali società per oltre mille miliardi di euro e che le Borse potrebbero crollare del 20% se ci vosse un’improvvisa rivalutazione in linea con l’obiettivo dei 2°C.
Per banche e assicuratori, afferma Dirk Schoenmaker, professore all’Erasmus University di Rotterdam e membro del Cers, i regolatori europei stanno lavorando per inserire negli stress test anche parametri legati a questi rischi. Le regole potrebbero essere pronte nel giro di 1-2 anni, mentre più a lungo termine si potrebbero considerare prescrizioni come l’obbligo di accantonare riserve o di limitare l’esposizione al settore.
Negli Usa intanto sale la pressione su Big Oil. La causa contro ExxonMobil, accusata di aver ingannato per anni gli investitori sul climate change (si veda il Sole 24 Ore del 6 novembre 2015), ha fatto proseliti: alla Procura generale di New York si sono unite quelle di altri 16 Stati, che indagheranno insieme. Nelle prossime assemblee delle compagnie petrolifere Usa gli azionisti presenteranno inoltre un numero record di mozioni legate al clima: ben 94 secondo l’ong As You Sow.
Fonte: Il Sole 24 Ore