Il peso del G7 nel negoziato sul clima
di Marzio Galeotti e Alessandro Lanza
Al G7 i paesi più sviluppati si sono impegnati a ridurre le emissioni del 40-70 per cento entro il 2050 rispetto al 2010. Ma ora la grande sfida fino al summit sul clima di dicembre riguarda la capacità di far coesistere il negoziato multilaterale con una serie di importanti accordi bilaterali.
Quante parole sul clima
I voti si contano, non si pesano, nelle pubbliche assemblee, diceva Plinio il giovane. Nei vertici internazionali, invece, le parole si pesano e non si contano. Tuttavia, la contabilità spiccia del numero delle parole dedicate dai meeting del G7 negli ultimi dieci anni al tema del cambiamento climatico può dare un senso della crescente urgenza o almeno della preoccupazione dei leader mondiali.
Negli ultimi dieci anni – escludendo il meeting in Germania del 7-8 giugno scorsi – la dichiarazione finale dei G7 o G8 ha dedicato al tema del cambiamento climatico una media di 420 parole.
L’assise bavarese, al contrario, gliene ha dedicate ben 930, raddoppiando nei fatti l’attenzione e permettendo alla stampa estera di scrivere – forse in modo prematuro – “G7 leaders bid ‘Auf Wiedersehen’ to carbon fuels”.
A guardare il mondo dal lato “mezzo vuoto” invece che da quello “mezzo pieno” qualche volta ci si guadagna in chiarezza. E allora bisogna anche ricordare che, se è vero che il numero delle parole sul cambiamento climatico è più che raddoppiato, è anche vero che rappresenta pur sempre il 10 per cento scarso di tutte quelle scritte nell’intero comunicato. Comunicato che esordisce richiamando la necessità di misure “urgenti e concrete” per poi promettere a breve un passo avanti perentorio riaffermando il proposito di concludere la conferenza sul clima – che si terrà a Parigi nel prossimo dicembre – con un accordo legale vincolante.
Che cosa significhi “accordo legale vincolante” non è dato ancora saperlo con certezza: un nuovo protocollo stile Kyoto? Uno strumento legale differente? Un accordo che pur non essendo un protocollo alla Convenzione sui cambiamenti climatici abbia effetti legali? Tutti questi dettagli, che in realtà dettagli non sono, rimangono da definire perché ancora in discussione e comunque sotto embargo nella pratica della negoziazione. Per il momento, mentre il G7 auspica per Parigi un documento snello e sul punto, l’ultimo round negoziale tenutosi a Bonn due settimane fa si è concluso con testo di circa novanta pagine, che andrà corretto, puntualizzato e verificato nei prossimi mesi.
I risultati attesi
Il principale risultato prospettato dal G7 riguarda il contenimento dell’incremento medio della temperatura in atmosfera a 2 gradi centigradi. L’obiettivo dichiarato resta quello di contenere le concentrazioni di gas a effetto serra entro le 450 parti per milione.
Un obiettivo ambizioso che l’Agenzia internazionale dell’energia ha rappresentato in maniera molto chiara nell’ultimo Outlook pubblicato nel novembre 2014 (grafico1). Il grafico rappresenta le riduzioni di emissioni necessarie nel tempo e diviso per paese o aree per mantenere le concentrazioni entro questo obiettivo.
La riduzione delle emissioni viene valutata come differenza rispetto a uno scenario base non tendenziale, ma che sconta le politiche attualmente in atto nei vari paesi o regioni.
Si tratta di una riduzione complessiva pari a circa 230 giga tonnellate di carbonio ovvero un taglio di quasi il 50 per cento delle emissioni previste in assenza di politiche specifiche e addizionali rispetto a quelle già in atto.
La differenza nel contributo atteso dalle varie regioni del mondo è unicamente dettata dal costo marginale della riduzione. Da un punto di vista macroeconomico risulta evidente come sia più efficiente (ovvero meno costoso per il sistema) ridurre le emissioni per i paesi o le regioni dove minore è l’efficienza energetica, come mostrato nel grafico 2. Questi valori evidenziano come l’Italia (e l’unione Europea in genere) – per esempio – abbia un efficienza media quasi doppia rispetto a Cina e del 30 per cento superiore agli Stati Uniti. Rifacendoci ancora al grafico 1 risulta come lo sforzo di riduzione delle emissioni richiesto alla Cina sia di gran lunga superiore a quello dell’Unione Europea, ovvero l’area economica che sta esercitando senza dubbio un ruolo leader nella politica energetica e di riduzione delle emissioni.
I prossimi passi
La grande sfida che attende la comunità negoziale e i paesi da qui a dicembre riguarda essenzialmente la capacità di far coesistere, sotto l’ombrello delle Nazione Unite e di un negoziato multilaterale sul clima, una serie di appuntamenti e accordi bilaterali di peso. Una negoziazione che si svolge attraverso il coinvolgimento di 194 nazioni rende impossibile per i paesi negoziare individualmente. Però, ancora una volta, i paesi si pesano e non si contano e dunque un mese fa Cina e Stati Uniti, a valle di un vertice bilaterale, hanno comunicato di aver raggiunto un accordo senza precedenti sul clima, in base al quale la Cina fisserà un tetto alle emissioni di gas a effetto serra entro il 2030, mentre gli Stati Uniti ridurranno le emissioni totali di oltre un quarto entro il 2025.
Sebbene molti punti dell’accordo restino ancora in sospeso, si tratta pure della decisione di paesi che, insieme, rappresentano oltre il 40 per cento delle emissioni mondiali.
Se lo spirito di quest’accordo – così come confermato dal recente G7 – diventerà pratica politica, i risultati non tarderanno a manifestarsi anche nella forma degli investimenti necessari a modernizzare e rendere più efficienti i nostri sistemi di utilizzo dell’energia.
Il rischio, tuttavia, che i paesi facciano un passo indietro rispetto a un accordo complessivo esiste poiché tante sono le difficoltà di un negoziato multilaterale di queste dimensioni.
Il G77, un’organizzazione intergovernativa creata cinquanta anni fa e attualmente formata da 131 paesi del mondo, principalmente in via di sviluppo, continua a mantenere una posizione molto critica. Rappresentano quasi il 70 per cento dei paesi ammessi al negoziato e oltre il 30 per cento delle emissioni.
Grafico 1
Grafico 2