Perché il climate change appassiona tre super-ricchi
di Alessandro Lanza
Perché 2 multi milionari e un ex politico di prestigio (anche lui milionario) si dovrebbero occupare di cambiamento climatico?
La domanda trova risposta quando questo terzetto si è manifestato pubblicamente. Lo compongono: Michael Bloomberg, fondatore e proprietario dell’omonima multinazionale nel settore dei mass media; Henry Paulson, politico e banchiere statunitense, ex segretario al Tesoro degli Usa ed ex ad di Goldman Sachs; Thomas F. Steyer, hedge fund manager di successo.
Queste persone – che non possono essere tacciate di ambientalismo militante o catastrofismo “verde” – hanno presentato un rapporto sull’analisi del rischio climatico per gli Usa (A climate risk assessment for the United States). L’obiettivo è di quantificare il rischio economico connesso all’impatto del cambiamento climatico per l’economia Usa.
Il gruppo di lavoro è di primissimo livello e include specialisti di varie discipline (economisti, climatologi, sociologi, demografi e specialisti in agricoltura). Questo rapporto arriva mentre l’amministrazione Usa riflette sulle proposte di riduzione delle emissioni, limitatamentee al settore elettrico e con un programma di taglio del 30% rispetto al livello del 2005, da attuarsi entro il 2030. Tanto o poco che sia questa politica, rischia di essere inefficace rispetto alle crisi previste. Il rapporto, corredato da appendici di grande spessore, mostra come il cambiamento climatico potrebbe costare diversi miliardi di dollari all’economia sotto forma di impatti di varia natura. Perdite che potrebbero essere ridotte solo in presenza di politiche di adattamento alle intervenute variazioni del clima.
Tutto coerente con la pubblicazione del 5° rapporto Ipcc in cui emerge il clima che cambia, l’insufficiente azione di mitigazione, ovvero la riduzione dei gas climalteranti, e la necessità di proporre politiche di adattamento.
Al di là dei risultati, è interessante osservare un elemento. Il cambiamento climatico è un rischio e come tale deve essere affrontato. Non è un fattore ignoto, né una ineludibile tragedia che si abbatterà su di noi, ma un rischio che ha costi previsti e rappresentati con i dovuti livelli di incertezza.
Le aziende affrontano molti rischi e, quando possibile, utilizzano strumenti per assicurarsi contro queste situazioni. Il cambiamento climatico è un rischio differente, e le aziende faticano a trovare una metrica compatibile alle procedure e modi di operare. Il cambiamento climatico si presenta anche nei suoi tempi lunghi. Un’azienda, al contrario, deve conciliare l’attesa del giornaliero giudizio del mercato, con una filosofia profonda, di lungo periodo, che la vede operare sul mercato anche per 50 o 100 anni, con i tempi cioè compatibili rispetto al rischio del cambiamento climatico.
Quest’apparente aporia, l’eterno tentativo di conciliare il breve con il lungo periodo, trova in questo rapporto una lettura moderna, concreta, rigorosa. Forse la risposta alla domanda sulle motivazioni di Wall Streat va ricercata qui: il rischio climatico è serio ma va affrontato anche con tecniche note, incluse buone pratiche assicurative. Forse un approccio meno ideologico, più coerente, tecnicamente fondato e condito una certa dose di generosità inter generazionale può rappresentare una via di uscita non ancora pienamente esplorata.
Fonte: Il sole 24 ore