Petrolio, 1,5 miliardi fermi in Emilia
L’Eni sarebbe pronta a investire subito 450 milioni di euro per potenziare la produzione di gas offshore nel tratto di Adriatico tra il Po di Goro e le Marche. E sono oltre 700 milioni (706 per l’esattezza) gli investimenti nell’oil&gas bloccati in Emilia-Romagna tra mare, terra e stoccaggi, calcolati del Rie, l’Istituto di ricerche industriali ed energetiche di Bologna. Cifra che sale a un miliardo e mezzo di business potenziale che i progetti nazionali sugli idrocarburi potrebbero muovere lungo la via Emilia, considerando la specializzazione nella costruzione di impianti, nei servizi ai contractor fino alle commesse per tutto l’indotto meccanico e metallurgico. Un business paralizzato da blocchi politici e autorizzativi che da un ventennio limitano lo sviluppo petrolifero nazionale. Risultato: solo in Emilia-Romagna 292 posti di lavoro diretto in meno (per progetti regionali) e almeno 10.500 indiretti lungo la filiera.
«Gli investimenti per valorizzare le risorse minerarie si tradurrebbero in fatturato e occupazione molto maggiori di quanto potrebbero fare altre opzioni energetiche come il fotovoltaico, che finisce con l’arricchire solo tedeschi e cinesi», sottolinea Alberto Clô, alla guida del Rie. La Strategia energetica nazionale messa a punto dal governo Passera sembrava aver rimediato a disinteresse e pregiudizio politico nei confronti di una produzione sostenibile locale di idrocarburi «che potrebbe da subito raddoppiare l’attuale produzione e di conseguenza anche le entrate per l’erario», ricorda Clô.
Eni opera sulla costa romagnola dagli anni Cinquanta ed è dalle sue commesse che è fiorito l’indotto che ancora oggi fa di Ravenna il primo distretto industriale nell’oil&gas, 40 aziende dirette, 80 nell’indotto e un miliardo di business. Qui l’ex Ente nazionale idrocarburi ha 600 addetti diretti (che quadruplicano nell’indotto) e 500 contratti di servizio. «Oggi – spiegano i referenti locali dell’Eni – operiamo su 46 piattaforme offshore nella fascia di mare antistante la costa romagnola, sulle 76 attive in totale, e da queste stiamo producendo circa 2 miliardi di metri cubi di gas l’anno sugli 8 complessivi in Italia». Piccoli numeri rispetto al picco nel distretto del ’94, quando i metri cubi erano oltre 6 miliardi che salivano a 13 miliardi includendo le Marche. «Stimiamo ci siano ancora 90 miliardi di metri cubi da estrarre dai bacini preesistenti lungo lo Stivale – proseguono i vertici Eni – e altri 50 miliardi da giacimenti già scoperti, ma il potenziale esplorativo è di circa 160 miliardi di metri cubi di gas aggiuntivi e una buona parte crediamo sia nell’off shore dell’Emilia-Romagna. L’attuale impianto normativo blocca però qualsiasi attività».
Il riferimento è al Dl 128/2010 (il cosiddetto decreto Prestigiacomo) che vieta ricerca e produzione nella fascia marina entro le 12 miglia dalla costa protetta ambientalmente e tutta la costa romagnola lo è. Ed è quindi tagliata fuori da futuri sviluppi. Tanto che la stessa Eni ha dovuto spostare in Nigeria il progetto da 60 milioni di euro “Adria 4D” che aveva avviato per mappare il sottosuolo adriatico con geofoni e onde sonore – a impatto ambientale zero – tra Porto Garibaldi e Igea Marina.
Non va meglio per gli investimenti onshore, in via di esaurimento, «perché mentre l’offshore ricade nella normativa nazionale, la parte su terraferma è di competenza anche regionale e in Emilia-Romagna la moratoria ha bloccato tutto», sottolinea Eni. In effetti l’Emilia-Romagna ha metà del territorio interessata da attività di sviluppo idrocarburi eppure è quinta tra le regioni italiane per flussi di turismo straniero e tra i lidi di Comacchio e Cattolica vanta 8 bandiere blu nonostante le decine di piattaforme in mare. Industria petrolifera e turistica possono dunque andare a braccetto. Anzi, le oil company in inverno sono garanzia di lavoro per gli alberghi del litorale.
A fare del Ravennate la culla hi-tech globalizzata delle attività upstream sono aziende come la Rosetti Marino, società di ingegneria e costruzione di piattaforme offshore e navi di servizio partner di tutte le principali compagnie mondiali; la Fratelli Righini, piccola ma globalizzata azienda meccanica che produce impianti per la posa di oleodotti; il gruppo Cosmi, per la costruzione e il montaggio di macchine di precisione per l’industria chimica e petrolchimica; la Hydro Drilling contrattista di impianti di perforazione petrolifera e geotermica o la Micoperi di manutenzioni offshore e contracting; ma anche la fiera internazionale dell’oil&gas che da vent’anni si tiene nella città del mosaico, Omc-Offshore mediterranean conference and exhibition, che anche nell’edizione dello scorso marzo si è chiusa con l’appello a porre fine all’«inaccettabile anomalia italiana», come la definisce Clô: la più alta dipendenza dall’estero per l’approvvigionamento energetico (30% in più della media europea, 83% contro 53%), con rischi geopolitici nelle forniture e uno spread del 30% sul prezzo dell’energia.
L’altissimo tasso di internazionalizzazione del distretto ravennate fa sì che per le imprese dell’indotto dell’oil&gas le prospettive siano buone. «Si stima una crescita degli investimenti nei prossimi tre anni del 5%», dice Stefano Silvestroni, presidente della sezione Cantieristica e manufatti off-shore di Confindustria Ravenna.
Fonte: ilsole24ore.com