I paesi penalizzati dal greggio a prezzi di saldo
di Galeotti e Lanza
Dal 2014 il prezzo del petrolio è in continuo calo. I paesi consumatori possono ricavarne qualche vantaggio, ma per i produttori le conseguenze iniziano a farsi sentire. E se alcuni hanno riserve di valuta per affrontare i deficit, più preoccupante è la situazione del Venezuela. O della Russia.
Una discesa iniziata nel 2014
I prezzi del petrolio a livello mondiale sono diminuiti quasi ininterrottamente a partire dalla seconda metà del 2014. Dal 2010 fino a metà 2014 erano rimasti moderatamente stabili, a circa 110 dollari al barile. Oggi (21 gennaio 2016) il valore è pari a 28 dollari per barile. La riduzione – non improvvisa ma costante nel tempo –produce conseguenze non trascurabili per le economie nazionali. Non è facile orientarsi in questa complessa dinamica in cui coesistono aree del mondo che perdono e altre che guadagnano.
In estrema sintesi, il cambiamento dipende da due ragioni principali. Da un lato, vi è la bassa crescita della domanda, ormai legata (quasi) unicamente all’area non-Oecd, e il segno del nuovo rallentamento dell’economia cinese non lascia presagire nulla di buono. Dal canto suo, l’offerta, invece di adeguarsi al ribasso per accompagnare la fase di flessione della domanda, vede profilarsi all’orizzonte un possibile ulteriore incremento, dovuto al ritorno sul mercato dell’Iran.
Se è lecito chiedersi in che misura i presunti effetti positivi sui paesi consumatori si stiano facendo sentire davvero, sicuro è che il calo del prezzo del petrolio porta a una significativa riduzione del reddito in molti paesi esportatori, anche se non tutti sono colpiti allo stesso modo.
Chi perde di più
L’Arabia Saudita utilizza da tempo un’aggressiva strategia per fiaccare i propri avversari, e in particolare gli Stati Uniti, abbassando i prezzi al punto da non rendere più conveniente l’estrazione dello shale oil, una produzione che per essere competitiva dovrebbe poter contare su un prezzo sopra i 50 dollari. Ai livelli attuali si tratta di un’industria morta sul nascere e i fallimenti delle compagnie indipendenti sono già cominciati.
I prezzi bassi perseguiti dai sauditi sono anche l’arma contro l’Iran, unico gigante dell’area in grado di contrastare la loro egemonia nel Golfo (arabico o persico). Reduce dai recenti accordi con gli Stati Uniti, l’Iran, intende arrivare nei prossimi dodici mesi a una produzione di 3-4 milioni di barili al giorno, mentre quella attuale è di circa 1 milione e mezzo. L’Arabia Saudita spera con questa politica di arginare l’ingresso di altri attori sul mercato, ma paga un prezzo piuttosto caro: per la guerra sui prezzi e per il fronte militare aperto nello Yemen, il paese ha bruciato oltre 70 miliardi di dollari in quindici mesi. Vero è che all’inizio di queste vicende l’Arabia Saudita possedeva un fondo di riserva di circa 700 miliardi di dollari.
Non solo l’Arabia Saudita, ma anche altri produttori del Golfo, come Emirati Arabi Uniti e Kuwait, hanno accumulato ingenti riserve in valuta estera e possono sostenere i deficit per diversi anni, se necessario. Invece, altri membri dell’Opec, come Iran, Iraq e Nigeria, hanno meno spazio di manovra perché maggiori sono le loro esigenze di bilancio, legate a una popolazione ben più alta rispetto alle entrate petrolifere.
Gli altri paesi dell’Opec vivono situazioni analoghe e molti di loro hanno bisogno di un petrolio al di sopra di 120 dollari al barile per evitare il ricorso a tagli drammatici.
Il Venezuela è uno dei maggiori esportatori mondiali di petrolio: a causa di una pessima gestione economica e politica affrontava grandi difficoltà già prima che il prezzo del petrolio iniziasse a cadere. Con un’inflazione al 60 per cento, l’economia del paese si trova oggi sull’orlo della recessione. La necessità di tagli alla spesa è chiara a tutti, ma il governo sembra riluttante ad affrontare scelte difficili. Il presidente Maduro ha per ora escluso tagli ai sussidi e aumenti del prezzo della benzina, anche se sono i più bassi del mondo e i sussidi costano circa 12,5 miliardi di dollari. La cautela del governo è comprensibile visto che nel 1989 un rincaro della benzina causò diffusi tumulti che lasciarono sul terreno centinaia di morti.
Un altro paese che va incluso nella lista di coloro che soffrono è la Russia. Inspiegabilmente, nonostante le oltre 8mila testate nucleari disponibili che nessuno vorrebbe veder cadere in mani poco raccomandabili, della Russia si parla poco. Resta tuttavia uno dei maggiori produttori di greggio al mondo e petrolio e gas rappresentano ancora il 70 per cento del suo reddito da esportazioni. Ne deriva che la Russia perde circa 2 miliardi di dollari di ricavi per ogni dollaro di riduzione del prezzo del petrolio, tanto che la Banca Mondiale ha previsto per l’economia russa una recessione importante se le quotazioni del barile non riprenderanno a salire. Ciononostante, i russi hanno confermato che non taglieranno la produzione, preoccupati come sono che Stati Uniti o Canada possano decidere di aumentarla. Resta il fatto che il calo del prezzo del petrolio, unito alle sanzioni occidentali per la questione ucraina, ha colpito duramente il paese e il governo ha tagliato le previsioni di crescita economica per il 2016, anche se il presidente Putin non utilizza ufficialmente la parola “crisi”.
Le previsioni
Molti analisti si aspettano ulteriori diminuzioni prima che i prezzi ritornino a salire. Goldman Sachs, che prima della crisi finanziaria del 2008 aveva previsto un petrolio fino a 200 dollari al barile nel corso di una “super bolla”, ora stima che i prezzi potrebbero scendere fino a 20 dollari. Morgan Stanley – al contrario – prevede un rimbalzo nella seconda metà del 2016 fino a un prezzo medio di 37 dollari, pur sempre in calo rispetto alle sue stesse previsioni precedenti, che erano di 60 dollari a barile.
Fonte: Lavoce.info